Il Bivio

Pubblicato con il titolo redazionale: Biden solo un “vice”, Trump come Machiavelli, ma qualcuno è pronto a sostituirli…, in “IlSussidiario.net”, 23 Marzo 2024.

E se Biden e Trump fossero destinati a lasciare il posto a qualcun altro? Sembra un copione impossibile. Ma nella politica Usa l’impossibile non esiste…

“Sulla base di quello che ha fatto durante il suo governo, Trump merita di essere considerato uno dei più grandi presidenti conservatori che noi abbiamo mai avuto”, scriveva (la sottolineatura è sua) l’autorevole giornalista Mark Thiessen sulle colonne del Washington Post: quotidiano, com’è noto, maggioritariamente democratico ma che, a differenza della grande stampa nostrana, ha conservato qualche rispetto per la libertà di espressione. E si può essere d’accordo con Thiessen anche senza per questo continuare con la tragicommedia del duello Biden-Trump; perché molto probabilmente nessuno dei due arriverà alla presidenza. Profezia azzardata? Certo: altrimenti, che profezia sarebbe?

È famoso l’aforisma di Marx sui grandi fenomeni e personaggi storici che si presentano in scena la prima volta nei panni della tragedia e la seconda in quelli della farsa. Ma forse nelle azioni di ogni rimarchevole personalità politica quella che ha luogo è una seria mescolanza di dramma (se non tragedia) e di commedia; la quale poi, sotto i riflettori dei media, viene troppo spesso mascherata da farsa, che è quello che sta accadendo nel caso presente.

Finalmente è cominciato a emergere qualche nome di candidato autentico, come il governatore democratico della California, Gavin Newsom. E perché no? Newsom è alto (requisito indispensabile per la presidenza: nelle foto internazionali di gruppo, il presidente yankee deve fisicamente torreggiare), relativamente giovane (classe 1967), e di piacevole aspetto. Se è per questo, c’è anche un possibile (fra i tanti) candidato repubblicano, Glenn Youngkin, governatore della Virginia: stessa generazione, alto e aitante.

La politica è il destino, in qualche misura inevitabilmente distruttivo (si potrebbe perfino dire: sacrificale), delle personalità che escono dalla massa. Ed ecco il dramma che si svolge sotto i nostri occhi, in attesa di trovare un vero scrittore (non un propagandista) che lo componga, e magari raggiunga, oltre il dramma, il tono alto della tragedia. Il dramma, adesso negli USA, è che ci sono due candidati che non sembrano ancora pronti a, per così dire, storicizzare se stessi, cioè ad abbandonare la scena, con la speranza di lasciare qualcosa dietro di loro.

A essere precisi, per uno di questi due il problema non si pone nemmeno: l’ex-vicepresidente di Obama non ha mai avuto una voce veramente propria, dunque non può lasciare un retaggio, e il suo dramma (degno, come tutti i drammi umani, di rispetto) è appunto questo. Tale assenza può anche essere un vantaggio: il nuovo candidato democratico non avrà (per usare una nota categoria letteraria che, come quasi tutti i concetti importanti in letteratura, ha una rilevanza anche politica) “l’ansia del precursore”. E il suo sarà, dunque, un gioco più facile nel tentativo di trovare un equilibrio fra le due anime del partito democratico: quella del progressismo autoritario, e quella del progressismo più umanistico e sensibile, nella tradizione, per esempio, del quasi-centenario Jimmy Carter, il più decente fra i presidenti americani degli ultimi anni.

La grande sfida è quella in campo repubblicano; e preoccuparsi solo del possibile neocandidato democratico, dando per scontata la candidatura di Trump, significa non vedere la posta in gioco, che è il tacito patto di debolezza (insieme staranno o insieme cadranno) tra i due candidati attuali. Il problema serio, dunque, è il lascito di Trump, che è sempre stato (anche attraverso gli anni di Biden) l’uomo di punta. Trump la cui eccezionale novità, terrificante per la politica politicante, sarebbe stata probabilmente neutralizzata, una volta, in quello stile Far West di cui sono stati vittime John Kennedy, Malcolm X, Robert Kennedy, Martin Luther King. Ma adesso i tempi sono cambiati: l’homo troppo novus non si elimina più grazie a  qualche “sparatore solitario”, ma con la persecuzione legale, che ha rafforzato l’immagine di Trump come vittima e resistente, ma finirà con l’azzopparlo. È questo infatti il dramma della sua sempre più necessaria rinuncia al secondo mandato (dove siete, scrittori di tragedie – come Ibsen, Camus, Arthur Miller – quando c’è bisogno di voi?).

E non si tratta di “trumpismo”, che non esiste. Trump è troppo intelligente per illudersi di lasciare dietro di sé alcun che di simile a una teoria o a una dottrina. È un intuitivo, che fra l’altro ha un’inimitabile abilità nel parlare come si mangia (ce ne eravamo dimenticati, durante gli anni sbiaditi della presidenza Obama), e nell’alternare la testardaggine con la flessibilità. Il suo successore dovrà non provarsi nemmeno, a imitare Trump (sarebbe altrettanto distruttivo che tentare di scomunicarlo e oltre tutto sarebbe impossibile, come hanno imparato a loro spese alcuni candidati alle ormai dimenticate primarie repubblicane).

Basterebbe che il candidato-ombra tenesse in mente che il talento di Trump consiste nel parlare il linguaggio del radicalismo e seguire la pratica del compromesso. Tattica che suona familiare a noi italiani, ma Trump non aveva bisogno di leggere Machiavelli, che oltre tutto gli avrebbe rovinato lo stile. Se il candidato fra le quinte, il candidato che ancora non è stato persuaso a esserlo, riuscisse in questa e alcune altre acrobazie, potrebbe vincere. Certo, non tutto è intuizione e tattica: ci sono anche quegli animaletti ribelli che sono le idee che un leader politico deve tenere a bada col guinzaglio delle ideologie. Ma delle ideologie in lotta bisognerà parlare un’altra volta.

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Intervista

Pubblico una recente intervista di Monica Fabbri, Paolo Valesio: un incontro prezioso. Racconto di un’esperienza, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 17, dicembre 2023.

La ricerca ha il pregio e il difetto di essere infinita, di metamorfizzarsi in modo inesorabile. L’effetto Dante mi ha portato a contattare il professor Paolo Valesio via mail. Lo stupore della sua gentile risposta mi ha costretto ad indagare sul percorso dantesco Italia-America-Mondo. Chi più di lui, che ha insegnato nelle prestigiose Università di Yale e di Columbia, può aver attraversato la condizione di homo viator, sognando nelle lingue di continenti diversi? Nella sua risposta mi colpì subito questa interessante osservazione che riporto pressoché interamente:

«E’importante, mi sembra, distinguere fra presenza/influenzadi Dante, e riscritture dantesche. […] L’esempio essenziale di riscrittura dantesca mi sembrano essere tuttora i Cantos di Ezra Pound (ma veda le mie osservazioni su Rimbaud; e poi c’è almeno l’esperimento, a mio parere non felicissimo, de La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini)».

Sì, verissimo. Riguardando i miei brevi appunti di dantismo, ho messo in rilievo soprattutto le influenze, anche se talvolta, inavvertitamente o consciamente chissà, gli autori riscrivono Dante, magari un verso soltanto o una parola che rimane tagliente nella memoria e ritorna prepotente nella scrittura. Come fa Margherita Guidacci in Neurosuite. Qui la sollecitazione, inutile dirlo, è sempre di Valesio, che mi ha voluto regalare un suo bellissimo saggio dal titolo Poesia dell’austerità: Dante in Margherita Guidacci 1.Mi colpisce la capacità di indagine di Valesio, volta a scrutare le pieghe di una poesia importante e lieve al contempo, che mi sprona a studiare nel senso etimologico del termine, cioè ad appassionarmi di colei che desidero definire, con la voce dell’Achmatova, poeta. Per ora mi limito soltanto a soffermarmi su due riflessioni contenute nel saggio, collegate al dantismo della Guidacci. La prima riguarda la bella poesia La Morenita in cui presenza e riscrittura di Dante si fondono in maniera evidente:

«La mia piccola anima corre su per la collina. | È una bambina bruna, che solleva le braccia, | leggera e ansante, incontro al vento che l’avvolge. || In cima alla collina, se il Signore la chiami, | possa Egli (così per i redenti | avveniva nei quadri degli antichi pittori) | accoglierla nel cavo della sua mano, | come un passero che appena vi si è posato, non impaurito, né triste, solo un po’ stanco:| molto tranquillo, del resto, al termine del volo» 2

Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,

l’anima semplicetta che sa nulla, 
salvo che, mossa da lieto fattore, 
volontier torna a ciò che la trastulla
(Purg. XVI, 85-90).

Il canto XVI del Purgatorio è il canto centrale, cioè il cinquantesimo della Commedia. Il dialogo con Marco Lombardo, uomo di mondo in vita, ennesimo alter ego del poeta, che conobbe la virtù cavalleresca, si incentra soprattutto sulla libertà. Se il mondo attuale è degenere, la causa è dunque tutta degli uomini e Marco lo può dimostrare chiaramente. Egli spiega a Dante che l’anima, una volta creata, è come una fanciulla inconsapevole, che è mossa dalla bontà di Dio e si indirizza verso ciò che le dà piacere. Essa rivolge il proprio amore anche a beni materiali e sbagliati, se non viene frenata e guidata opportunamente: per questo esistono le leggi ed è necessario che un sovrano le applichi con rigore. Le leggi nel mondo esistono, ma chi le fa rispettare? Anche l’anima della Guidacci è una bimba leggera e bruna che desidera riposare, al termine del volo, nel cavo della mano del Signore in una sorta di viaggio a ritroso rispetto all’anima semplicetta del poeta fiorentino. Del resto, nota Valesio, non ci sarebbe bisogno di Dante per osservare che l’oltre, il cielo, non sarebbe per nulla significativo, se la poesia non parlasse della terra, di ciò che è carnale. Tornando alla mail, Valesio mi ha donato, oltre al saggio, anche il suo libro dal titolo Il Testimone e l’Idiota 3. E propriolunedì 3 aprile 2023 alle ore 17 ha avuto luogo la presentazione di questo volume di poesia all’Università di Bologna presso l’aula 4 di Piazza Scaravilli. Sono intervenuti Beatrice Zerbini, Andrea Severi e Veronica Bernardi. L’incontro, concepito soprattutto come una reading(e giustamente simili occasioni devono dare spazio alla parola poetica in quanto tale), è stato veramente interessante, anche perché i protagonisti sono stati i lettori con le loro acute interpretazioni e osservazioni. Tornando a casa, ho subito preso in mano il volume e l’ho divorato. Nell’introduzione Bertoni definisce questo testo un’opera mondo, termine alquanto appropriato anche se non è possibile applicare un’etichetta all’opera poetica di Valesio. Sono quattro i personaggi, il Testimone, l’Idiota, la Voce e la Fiamminga, delineati con pochi tratti significativi ed essenziali. La Voce parla solo ai primi due, la sentirà nelle ultime pagine la Fiamminga, donna curiosa e vivace, una sorta di nomen omen, che a me ricorda la terzina dantesca del canto XV di forte impatto onomatopeico:

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, 
temendo ’l fiotto che ’nver lor s’avventa, 
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
(Inf. XV, 4-6)

Durante l’incontro sono stati citati molti autori di riferimento per Il Testimone e l’Idiota: lo stoicismo di Seneca, Boccaccio, Tasso, Pirandello, T.S. Eliot e numerosi ipotesti come il Cantico dei Cantici e la Bibbia. Ma a me veniva in mente sempre e soprattutto Dante. Nella mail Valesio mi scrive ancora:

«Lei forse non ci crederà, ma è stato solo dopo aver pubblicato il libro che mi sono reso conto di quanto simile (fatte salve le debite proporzioni) fosse il suo ibridismo di forme (poesia, narrativa, dramma) alla struttura della Divina Commedia. Fu incoscienza, o libertà dall’ “ansia dell’influenza”?».

Confortata anche da questo, mi sono detta che non sbagliavo, forse perché semplicemente Dante entra nel sangue e nelle ossa degli italiani e il destino di Valesio ha molti punti in comune con quello delle poeta fiorentino. Banalmente, il viaggio tra due continenti. Per Dante, che avrebbe con fatica abbandonato la sua Firenze, andare a Verona o a Ravenna era come visitare un altro mondo, sentire un’altra lingua, imbattersi in altri costumi, scrutare altre visioni. Ma quello che affascina de Il Testimone e l’Idiota, oltre a uno straordinario ibridismo di forme a detta dell’autore, è la presenza di una cultura che diventa esperienza. Quelle di Valesio non sono appena citazioni, ma espressioni di un incontro tra l’autore e gli scrittori che fanno capolino dai versi delle sue poesie e della sua prosa. Anche in questo è simile a Dante e in particolare al suo Convivio, nella scelta formale di una sorta di prosimetro o meglio di una commistione di generi che non riescono più a chiudersi nelle canoniche definizioni. Il ritmo del testo si fa sempre più incalzante, bisognerebbe soffermarsi sui singoli versi, sui termini ricercati (duologo, il neologismo incarnadine e tanti altri vocaboli ancora). Ma perché poi? Per capire? E l’Idiota nella poesia Odori riflette in questo modo:

Capire questo (ma cosa c’è da capire?) /sarebbe, gli sembra, una chiave per lo scrigno, se ancora si trovasse, /dell’origine.

L’Idiota, individuo particolarissimo e strano, chiuso nella sua etimologia di incompetente, inesperto, incolto, riserva molte sorprese, tra cui la capacità di stupirsi della realtà, duetta senza dialogare con il Testimone. Protagonisti solitari di questa opera mondo, potrebbero considerarsi due alter ego dell’autore, come del resto anche la Fiamminga e la Voce. E quante volte abbiamo ripetuto che tutti i personaggi della Commedia sono gli alter ego di Dante o rappresentano qualche sua passione, vizio o virtù? Vi sono esplicite citazioni dantesche nella poesia Res sunt lacrimae (titolo che, in un infinito gioco di specchi, rimanda al v. 462 del I libro dell’Eneide virgiliana e anche alla novella di Verga Lacrymae rerum, se vogliamo continuare a mescolare i generi):

[…] e ’l gelo strinse le lagrime tra essi e risserrolli.
(Inf.XXXII 47- 48 )

Il canto XXXII è il primo canto dedicato ai traditori, gli uomini che Dante detesta (più di loro solo gli ignavi) e che sono imprigionati nel ghiaccio. Nella poesia la Voce ripete che gli errori come le lacrime sono infiniti. Forse anche noi siamo conficcati nel “fango delle nostre miniere personali”. Altra bellissima riscrittura dantesca la lirica intitolata Il muro dell’indifferenza (come non pensare al muro con i cocci aguzzi di bottiglia in Meriggiare pallido e assorto di Montale?). La Voce recita il verso 36 del canto XXVII del Purgatorio:

Or vedi, figlio: 
tra Beatrice e te è questo muro.  
(Purg. XXVII, 35-36)   

Ho sempre ritenuto che questi versi fossero geniali: Virgilio, per spronare Dante a oltrepassare il muro di fuoco, gli dice che di là ci sono gli occhi della sua donna e lui, solo così, affronta quel ‘bogliente vetro’ che per rinfrescarsi si sarebbe gettato in un incendio. Nel testo di Valesio il muro diventa un’allegoria, anzi una parabola del muro dell’indifferenza che separa il testimone dal Beatificante. In queste liriche si prega non solo per le anime del Purgatorio, ma anche per quelle dell’Inferno e l’Angelo, di cui parla l’Idiota, è terribile come quello di Rilke. Le suggestioni sono molteplici, di ogni lirica si potrebbe fare un affondo filosofico, ma qui mi premeva soprattutto evidenziare alcuni tratti simili all’opera dantesca. Sono i versi finali della poesia Al fuori Dentro-margine (Dream Poem) che mi hanno lasciato senza fiato e avrei voluto fossero i miei:

Non importa se sei fuori dal coro ma bada a non scivolare nel sottocuore.


BIBLIOGRAFIA
GUIDACCI 1970 = Margherita Guidacci, Neurosuite, Neri Pozza, Vicenza.
MAGHERINI 2022 = Simone Magherini (a cura di), Dante e i poeti del Novecento, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2022.
VALESIO 2022 = Paolo Valesio, Il Testimone e l’Idiota, La nave di Teseo, Milano.

Desiderosa di approfondire la conoscenza di Valesio, dopo la presentazione, corsi a stringergli la mano e a chiedergli la possibilità di poterlo intervistare, non solo per continuare a parlare de Il Testimone e l’Idiota e di Dante, ma per ascoltare un’esperienza letteraria e di insegnamento, la cui bellezza traspariva in modo chiaro nell’aula universitaria di quel giorno a Bologna. Nel mese di ottobre ci siamo accordati.
Giovedì 5 ottobre 2023 è una bella giornata; l’autunno ha la faccia dell’estate e Bologna la dotta, la grassa e la rossa si impone con prepotenza. L’appuntamento è al Caffè Letterario Carracci Fava. Mi stupisco di quanto mi sia ignota e misteriosa questa città in cui sono stata sei anni della mia vita. Arriva puntualissimo, forse un po’ preoccupato, ma subito si sente a suo agio, perché, in realtà, è lui ad intervistarmi. Come tutti i grandi maestri, ti ascolta con interesse e profondità e non posso fare a meno di pensare che mi ricorda Ezio Raimondi, la sua semplice complessità, la sua capacità di dialogo. Però meno teatrale e più familiare. Così ha inizio la nostra conversazione:

D. La prima domanda le sembrerà elementare: che cosa vuol dire per lei studiare veramente, studiare qualcosa?

R. Penso sempre a un’ovvietà, forse, all’etimologia di studium che vuol dire rapporto appassionato e affettuoso, frequentazione appassionata di un oggetto. Il risultato è che trovo un po’ difficile oggi studiare. I colleghi della mia età, professori doc, dicono ancora: “Ho libero un mese per studiare”. Io non riesco più a studiare, io leggo appassionatamente e disordinatamente e ogni tanto studio. Tutto questo per me è studio. Una volta, invece, separavo rigorosamente le cose. L’ideale da giovane universitario era essere uno studioso. Adesso per me studioso vuole dire ‘frequentatore appassionato di certi testi’. Sono arrivato ad una specie, spero produttiva, di disordine. Il termine studium non ha più per me una connotazione solo accademica, lo dico senza disprezzo.

D. Altra domanda da professoressa: quali sono i suoi autori preferiti?

R. Non è affatto semplice. Andando forse più avanti nell’aspetto psicologico personale, in poesia e in narrativa, io mi appassiono soprattutto a ciò che avrei voluto fare io, ma quell’autore lo fa meglio. Gli autori che mi hanno influenzato si possono capire, gli autori che io ammiro sono forse un’altra cosa. Se facciamo un salto indietro, da ragazzo avevo letto Montale, che mi ha influenzato in poesie che poi ho perso, e poi due shock: Rimbaud, mia madre mi aveva comunicato il francese, l’ho praticato in conversazioni. Rimbaud mi bloccò: avendo letto Rimbaud, pensai che scrivere poesie fosse inutile, perché aveva fatto tutto lui e mi risulta, da alcuni saggi che ho letto, che la mia non è esperienza unica. Quindi ci misi un po’ a superare lo shock. E poi Shakespeare. Il vero rivale di Dante. Io sento nella pelle ogni verso di Shakespeare. Mi è capitato, insegnando negli Stati Uniti, di vedere una strana situazione. Ogni tanto citavo Shakespeare, pensavo fosse noto, mentre i ragazzi mi guardavano stupiti. Li obbligavo a leggere almeno una tragedia o una commedia. Se andiamo avanti, sto cercando di organizzare le idee. Graham Greene è un autore che mi ha influenzato nel mio primo romanzo ancora inedito che mandai a Calvino. Calvino fu piuttosto critico, abbastanza scostante, però mi diede un consiglio: “Senti, perché non leggi Graham Greene per costruire una trama?”. Perciò io lo lessi e c’è un romanzo The Power and the Glory, parla di un sacerdote clandestino in Messico. È un libro che mi piace moltissimo e mi commuove ancora, anche perché è una delle prime occasioni in cui un teologo, un frate domenicano, mi disse, a proposito della versione teatrale di quel romanzo, qualcosa di importante: “Un modo per capire quest’uomo è che lui non è molto forte nella fede, ma è forte nella speranza e nella carità”. E questa fu una distinzione tra le tre virtù teologali molto interessante. Poi i romanzieri gialli, io mi fermo però agli anni Sessanta; e poi Proust certamente, nel senso che Proust rallentò in modo fatale la mia scrittura; io scrivo ogni giorno quella che io chiamo una Tetralogia, cioè quattro romanzi quotidiani in cui noto tutto quello che mi capita; e il mio problema fondamentale è che, se io inizio ad annotare qualcosa che mi piace, comincio, come diceva mia madre, a ricamarci sopra, non la finisco. Per questo ho adottato il sistema del frammento (ho visto questo e quello) e poi passo ad altro. E poi Victor Hugo, non solo come romanziere, ma come, posso dire, pensatore. In Victor Hugo la storia diventa umana e lui mi ha influenzato anche nei miei articoli di giornale, cercando di non esagerare, perché se no il redattore mi dice che sto parlando a me stesso. E fra gli italiani, non so, sono sicuro che verranno fuori. In questo momento ho una specie di blocco…; posso dire che ho una sorta di amore e odio per Manzoni. Manzoni ha un senso paternalistico verso i personaggi e d’altra parte la sua voce ironica è qualcosa di straordinario; però, se parliamo della storia d’Italia, vista attraverso il romanzo, io mi sento più vicino a Ippolito Nievo. Nel suo romanzo la storia d’amore è fondamentale. Tra i poeti c’è il discorso della cosiddetta ‘ansietà dell’influenza’ (meglio dire: l’ansia dei precursori). La mia ansia dei precursori sono Pasolini e la Rosselli. Non ho una buona memoria per ricordare i versi, ma quando un poeta intitola la sua raccolta Trasumanar e organizzar, saltando da Dante al Partito Comunista, è geniale. E poi la Rosselli per questo suo flusso continuo, le metafore indisciplinate. E ancora: Caproni, Testori. Poi il panorama si dirada (ma Milo De Angelis ha qualcosa di semi-elegiaco e insieme cupo che mi piace). E poi i due grandi autori, che sono stati sia autori di studio, sia di influenza personale e che mi hanno reso difficile la carriera: Gabriele d’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti. Negli Stati Uniti sono marcati ideologicamente in modo grossolano, cosa che accade per esempio anche a Guareschi (su cui lei ha scritto). Io ho scritto solo un libro su d’Annunzio e alcuni saggi. Avrei voluto scrivere di più, ma mi fermavo continuamente a rileggerlo; per me d’Annunzio è lo scrittore essenziale fra Ottocento e Novecento. Quanto a Marinetti, editai, con un mio dottorando un romanzo, che mi permetterei di consigliarle, con un titolo intraducibile perché troppo bello: Venezianella e studentaccio, un romanzo che Marinetti scrisse un anno prima di morire in una Venezia quasi irriconoscibile. È la storia d’amore di una Venezianella che si scopre essere il simbolo di una purezza ascetica e di uno “studentaccio”, che è uno studente militare: un romanzo bellissimo, post- futurista. Poi ci sono i racconti di Marinetti, belli e brutali. A me piacciono questi due estremi: d’Annunzio e Marinetti, un’amicizia alquanto controversa, come lei sa. Io credo che d’Annunzio sentisse che Marinetti aveva un’altra marcia, aveva scoperto qualcosa; e si sentiva un po’ minacciato. Però non sono mai riuscito ad assegnare delle tesi su questi autori, tranne a due giovani: uno (il dottorando cui ho accennato prima), che adesso insegna negli Stati Uniti e che dovrebbe pubblicare la sua tesi su Marinetti, e un’altra studentessa. In entrambi i casi ci fu uno scontro di tipo ideologico con la commissione di tesi: una litigata politica da “Otto e mezzo”. Io ero veramente perplesso, cercavo di controllarmi anche perché avrebbe danneggiato loro. Proprio il livore di un preconcetto insomma, e però questi due coraggiosamente ottennero il dottorato e pubblicarono saggi marinettiani.

D. Volevo chiederle cosa pensa di una frase di Pasolini che disse ai suoi amici di Officina: “La letteratura che facciamo insieme ha senso per l’amicizia che ci lega”. In un ambiente un po’ particolare come quello dei letterati è importante questo confronto? Anche perché per me è l’unico modo per fare letteratura.

R. Ma io non sono certo, perché il problema personale si sovrappone a quello storico-letterario: ho molta difficoltà a farmi degli amici. I miei amici risalgono agli anni universitari, ora non ci sono più; e una volta scrissi, se posso permettermi di citare un verso: “Gli amici sono come lampi” e intendevo dire che restano incisi, diciamo così, nel cielo della coscienza, sono fulminei, ma restano, quindi io ricordo alcuni incontri come definitivi. Fare poesia in amicizia è la grande utopia, è la grande idea di Marinetti o dei poetae novi, ma non è il mio stile, io mi sto orientando sempre di più verso una specie di accettazione di una solitudine, anche se alcuni miei amici poeti bolognesi hanno il senso dell’amicizia: Rondoni come gruppo e Bertoni come sentimento. Devo dunque accettare una mia tendenza alla solitudine, come nella grande frase, intraducibile a mio parere, di Rousseau: Les Rêveries du promeneur solitaireche io tradurrei: “ Pensieri di un uomo che cammina da solo”; il che per me non è semplicemente un ideale, ma è quello che sono. Solo con l’arrivo della rete, ho riscoperto la possibilità dell’amicizia, on line, sia con vecchi sia con nuovi amici. Mi accorgo che le mie coltivazioni di amicizia sono ormai queste, e le mie email io le chiamo ‘lettere’. Però mi rendo conto che la mia (beh ormai io sono anziano!) è una razionalizzazione, un limite, non lo so; ma io non la vedo così, non la vivo così, ne apprezzo la bellezza.

D. Nel mio articolo, alla fine, ho scritto che i suoi versi “Non importa se sei fuori dal coro/ma bada a non scivolare nel sottocuore”, avrei voluto scriverli io. Ti colpisce lo stile di un poeta o di uno scrittore, perché rivela cose che avresti voluto dire tu. Pertanto, una domanda che spesso mi pongo è: che senso ha la letteratura oggi, quando tutto è tecnica?

R. È difficile, è da anni che non insegno. Per me fin dall’inizio l’insegnamento è stato dialogo rapsodico, il che è piaciuto molto ad alcuni e molto poco ad altri, sono stato un elemento di divisione, signum divisionis. Alcuni amavano questo e altri no. Per me il rapporto con i ragazzi, (che poi “i ragazzi” andavano dai 25 ai 40 anni), è stato sempre fondamentale ed era un rapporto di dialogo. La letteratura va difesa in ogni modo e maniera, rendendola accessibile; non noiosa certo, ma senza vergogna. Ma poi non voglio neanche “difendere la letteratura”; dico semplicemente: “Guardatevi intorno!”. Ci sono tanti modi di sostenere la letteratura, tanti nomi; per me, oramai, si tratta della mia rivista: “Ipr. Italian Poetry Review”. Ecco lì vedo i più giovani, mi mandano le poesie, a cui rispondo costruttivamente, i miei “No” sono pochissimi; e questo per me è il dialogo, il mio dialogo a distanza. In realtà è una lotta continua nell’accettare quello che ho appena detto: ogni manoscritto, che io leggo lentamente, porta via il tempo alla mia scrittura. Io lo vedo come un doveroso omaggio, non voglio dire sacrificio, ma un doveroso omaggio alla letteratura, alla poesia; che propriamente non è letteratura; nel senso che, quando scrivo poesia non penso alla letteratura. Sto cercando di esplodere qualcosa, ma io lo so che è letteratura. Il mio servizio alla letteratura, il mio omaggio è questo, che io mi occupo ancora di letteratura; dovrei stare chiuso nel mio studio, invece no, non ci riesco. Ho appena ricevuto da un amico un dramma che adesso sto leggendo, ma l’idea di proporre “perché non fai così o cosà” è irresistibile.

D. Mi viene in mente che Pasolini, essendo un solitario, forse, intendeva proprio questo per amicizia, un dialogo tra chi scrive…

R. Amicizia, dialogo a tutti i livelli…

D. Facendo la tesi su di lui, ho conosciuto aspetti privati di malinconia profonda, timidezza solitaria da quello che parenti e conoscenti mi dissero: aveva una sensibilità profonda (ho intervistato anche Gianni Scalia). Per questo mi è venuto in mente un possibile senso dell’affermazione pasoliniana: come condivisione della scrittura. Ora, però, vorrei capire che importanza ha avuto per lei l’esperienza con una piccola casa editrice, quella di Raffaelli.

R. Con Walter Raffaelli ho stretto amicizia, è un tipo molto interessante ed è stata una bella esperienza. E gli sono grato per avermi pubblicato, prima La mezzanotte di Spoleto (2013, seconda edizione 2018) e poi, sempre nel 2018, Esploratrici solitarie. Poi ci fu poi un colpo di fortuna: aspettai un anno per la risposta di Elisabetta Sgarbi, che alla fine mi pubblicò Il Testimone e l’Idiota (2022). E’ stata la mia prima esperienza con una grossa casa editrice; che mi ha fatto piacere, è ovvio, ma all’estremo opposto delle minuscole case editrici, come quella di alcuni amici, che si escludono dal circuito editoriale normale, e questo a me non piace, ma mi piace che siano molto amici fra loro. Con Alberto dirigo una serie di letture ‘Officina della poesia’, (se lei dovesse passare da Bologna, mi piacerebbe che ci venisse a trovare). Ci diciamo: “Cosa dici di questo, mi piacerebbe presentare quello”, ma lì sul momento, mentre una volta avremmo passato quasi una notte a decidere sulle poesie da scegliere. Per altro mi ricordo i litigi con Adriano Spatola proprio su Pasolini. Spatola non poteva soffrire Pasolini; mi ricordo che venimmo quasi alle mani, cosa che, sul momento, mi mise a disagio, e adesso che lui non c’è più mi commuove. Quando mai, prima e dopo di allora, ho corso il rischio di venire alle mani con qualcuno, di uno scontro fisico sulla poesia? Ricordo Spatola quando abitava e lavorava con Giulia Niccolai. Ed erano un mito scapigliato: Niccolai, che si converte, come lei sa, diventa monaca buddista, dopo la sua rottura con Adriano. Adriano, nelle condizioni in cui era, era un amico che poteva rivoltarsi in un momento come una belva, la Niccolai cercava di calmarlo per quanto possibile. Era una coppia strana ma bella, che mi fece sentire la poesia. Ecco, tutto ciò mi è venuto in mente a proposito di Walter Raffaelli, che è uno dei più raffinati piccoli editori italiani. (Ci vedremo alla fine di ottobre).

D. Su Dante e l’influenza ne Il Testimone e l’Idiota abbiamo già parlato nell’articolo. Ora vorrei approfondire un’altra questione. Che cosa si è portato a casa dall’esperienza americana?

R. È una cosa a cui penso quasi ogni giorno senza averne un quadro chiaro. L’esperienza americana è un mondo che vedo come dietro una nebbia. Ho vissuto metà della mia vita, debbo ripeterlo a me stesso se no non ci credo, negli Stati Uniti. Non è che non ricordi nulla, ma è come una serie di appuntamenti interrotti, come se la città che ancora amo di più, New York, fosse per me qualcosa di mancato: un luogo dove sarei voluto stare di più per capirlo. Non voglio dire che l’America sia un sogno, questo è un luogo comune; non è un sogno, ma è un paese avvolto nella nebbia. Tra l’altro ho la doppia cittadinanza (non lo dico spesso, l’Italia è un po’ molto nazionalistica in certe cose). Insomma New York è un appuntamento che mi aspetta, a volte penso che dovrei tornare a finire la mia vita là. Prima però abitavo vicino a New York nella campagna e mi piaceva moltissimo. Non ho mai capito completamente che cosa di New York io sentissi indispensabile. Dicevo: “Domani la capirò, domani la capirò”, poi a un certo punto ho raccolto i miei libri e sono tornato in Italia. Una passeggiata per capirci qualcosa, e invece sono ancora qui a Bologna.

D. Comunque, quando ha detto appuntamento mancato con la città, la capisco. Tornando a Bologna, dove ho vissuto sei anni, mi accorgo che anche per me è un appuntamento mancato. Ci stai tanto tempo e sai di non conoscerla, come se ti mancasse qualcosa.

R. Penso che sia anche un buon senso di esploratività da parte nostra, naturalmente sarà sempre così. E non lo dico nel senso che non vorrei più parlarne, anzi al contrario. Ascolto sempre la tv americana, mi fa nostalgia l’inglese, a volte passo dall’italiano all’inglese quando voglio dire certe cose e non me ne accorgo.

D. Per concludere, Il Testimone e l’Idiota ha vinto il Premio Letterario Nazionale “Forum Traiani”. e il Premio Speciale della Giuria al Concorso Internazionale di Poesia “Città di Acqui Terme” Ma cosa porta in sé la scrittura, perché si avverte la necessità di scrivere?

R. Perché si scrive è una domanda un po’ grande. Non rispondo perché si scrive, ma le rispondo come ho scritto quel libro. Nel 2017 avevo scritto una plaquette, Storie del Testimone e dell’Idiota, in cui raccontavo di aver visto uscire i personaggi come da una nebbia. Mi hanno detto: “ Questo è Pirandello!”. Ma ciò è ovvio: il fatto importante è che io ho sempre pensato che Pirandello li avesse veramente visti, i personaggi. Anche per me è stata una visione. Dopo, Il Testimone e l’Idiota è stato un altro libro. A New York abitavo da solo in quel periodo, stavo in un appartamento con una bellissima vista su un fiume, ma le camere erano piuttosto piccole. Lì cominciai a sentire quella che io chiamo la Voce, che poi sono le parole che mi venivano in testa, che brontolavo fra di me e che ho battezzato la Voce. Non è che sia una visione di Patmos, però l’ho sentita per molto tempo: la Voce viene fuori dal soffitto, dalle pareti, non viene fuori dall’aria. E poi c’è la Fiamminga, che è un’altra esperienza. Dicono: sono tutte emanazioni del mio io. Sì, vabbè, Madame Bovary c’est moi! È ovvio che tutti e quattro i personaggi sono emanazioni del mio io, ma questa è una persona reale, anche se non so neanche se sia ancora viva o morta, e in quale continente abiti; è un personaggio che io vorrei riprendere. La Fiamminga è quella che taglia di più; è quel personaggio, non so se lei ha notato, che in due o tre casi usa parole tutt’altro che letterarie. La Fiamminga è la diversa, la Fiamminga è un ricordo, forse una tentazione: la mia tentazione di fare il prossimo libro su di lei. Ma deve essere un tuffo totale. Sto aspettando. Nell’episodio a cui io tengo di più, che è l’Epilogo de Il Testimone e l’Idiota, quando i tre se ne vanno via, mi è dispiaciuto molto: non volevo che se ne andassero, ma ho sentito che dovevano farlo, che non si sarebbero visti più. Adesso cosa faccio? Sono ancora qui che sto pensando, ne recupero uno, la Fiamminga, oppure…
Credo di aver fatto una “passeggiata” un po’ irregolare, ma lei è una letterata, non si scandalizzerà di certo.

R. No, le sono solo profondamente grata.

Note

  1. MAGHERINI 2022, pp. 243-272.
  2. GUIDACCI 1970, pp. 355-356.
  3. VALESIO 2022

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Verità e Narrazione

Pubblicato con il titolo redazionale: Se Shakespeare ha molto da dire anche a chi ammazza tra Ramallah e Tel Aviv, in “IlSussidiario.net”, 14 Dicembre 2023.

Che cosa direbbe alla nostra pretesa di verità la “scena politica” d una tragedia come “Romeo e Giulietta” messa in scena nell’attuale guerra a Gaza?

“Il contrario della verità non è la menzogna: è la narrazione”, aveva scritto, ai tempi delle più accese dispute sul coronavirus, un filosofo tedesco; ed è un aforisma che merita di sopravvivere al di là della sua occasione originaria, perché ridimensiona la ormai insopportabile (ma lo era già ai tempi di Ponzio Pilato) retorica della Verità con la maiuscola, e al tempo stesso ridimensiona la sua trasformazione alla moda: la retorica della narrazione.

Verità è un concetto rigido, abbreviato, esclamativo, un’immagine fissa, difficile da maneggiare. D’altra parte, ogni narrazione è artefatta, è piena di trabocchetti, si muove fra i “detti” e i “non-detti”. Così, la narrazione è diventata un mito infantilizzato e pseudo-terapeutico, o l’ennesimo trucco politico-ideologico. Come evitare allora il nichilismo?

Cercando di mettere l’iniziale minuscola alla parola “verità”, e così riconoscere il suo lato inevitabilmente soggettivo ed esplorativo; e cercando di ascoltare per un momento chi sulla narrazione lavora, come i romanzieri, i poeti, i pensatori, i critici letterari, questi quasi invisibili interpreti della società. I quali (nella loro pratica come nelle loro analisi) ci mostrano che tutti i doppi fondi, gli avanti e indietro, le rugosità, le ombre, le contraddizioni di ogni narrazione sono tali non per il piacere perverso di complicare le cose, ma perché così è la vita umana.

Il critico Giorgio Linguaglossa ha scritto recentemente in un suo blog: “Oggi la politica estera fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estera non può fare a meno che riappropriarsi delle procedure della pubblicità”. Si può obiettare subito che un discorso autenticamente poetico non è un discorso che “faccia della politica estera”, e che imiti lo stile pubblicitario; tuttavia quella brusca provocazione fa pensare, soprattutto in questi tempi.

Nessuna tragedia o melodramma classico possono essere messi in scena oggi senza che emerga sullo sfondo in qualche misura la “scena” politico-sociale contemporanea. E allora metti che, una sera di queste, ci si trovi a essere spettatori di una “moderna” interpretazione italiana di Giulietta e Romeo (o Romeo e Giulietta che dir si voglia) di Shakespeare. Un’interpretazione alla garibaldina, che punta tutto su un giovanilismo un po’ di maniera, trasposta in una Verona dei cosiddetti “giorni d’oggi” simile a una discoteca fra i boschi, e che smonta la poesia dei versi. Ma il genio dell’autore era un genio soprattutto teatrale: dunque, il nucleo tragico sopravvive a quello strapazzo, e riesce a commuovere anche in questa versione. È la passione nella sua forma sorgiva, adolescenziale: quasi animale e al tempo stesso piena di purezza senza confini, compresi i confini rispetto alla violenza.

Peccato però che la regìa disinvolta non abbia capito il vero colpo di genio di tutta la tragedia (che ci riporta in un certo senso alla “politica estera”), e abbia tagliato l’ultima parte dell’ultima scena, fermandosi al famoso duetto di amore e morte, alla fine del quale tutti, emotivamente esausti, saremmo pronti ad andare a casa. E invece la tragedia – quella dentro la tragedia – si rivela soltanto adesso, nelle poche battute finali di quel deus ex machina che è il Principe di Verona venuto (troppo tardi) a metter pace, il quale si rivolge ai due capifamiglia rivali:

“Ah eccoli qui, i nemici: Capuleti! Montecchi! / Guardate che flagello si abbatte sul vostro odio, / tanto che il cielo trova modo di uccidere le vostre gioie per mezzo dell’amore. / E anch’io, per aver chiuso un occhio davanti alle vostre discordie, / ho perso un gruppo di parenti: siamo tutti puniti!”. Basta un grande verso (That heaven finds means to kill your joys with love) per aprire un abisso nel quale il pensiero rischia di perdersi: è come dire che l’innamoramento dei due giovani è stato una punizione del cielo (o del destino) per le mal dirette “gioie” di queste famiglie, che sono invecchiate nel loro odio reciproco e adesso si trovano a sopravvivere miserabilmente ai loro figlioli.

Domanda: sì, ma che c’entra tutto ciò con la “politica estera” della poesia? Risposta: proviamo a immaginare (“Pensare, non è vietato”, dice la Carmen di Bizet) proviamo a immaginare una tournée di Giulietta e Romeo che si muova fra Ramallah e Tel Aviv, alternando la recitazione in ebraico con la recitazione in arabo. Ci sarà sempre chi sogghignerà: “Pensate forse di cominciare a non dico finire, ma rallentare, una guerra con una rappresentazione teatrale?!”. E, da che mondo è mondo, ci sarà sempre chi risponderà: “Perché no, Perché no?”.

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Pace e Pacificazione

Pubblicato con il titolo redazionale: HAMAS-ISRAELE/ Simone Weil, il principe di questo mondo e la pace che vorremmo, in “IlSussidiario.net”, 10 Ottobre 2023.

La guerra scoppiata tra Hamas e Israele ripropone le domande sull’informazione, sui “fatti” e le loro interpretazioni, su ciò che veramente speriamo

“La società è il regno del principe di questo mondo”, scriveva la grande pensatrice francese Simone Weil nella sua raccolta di pensieri composti tra il 1940 e il 1942, poi raccolti e ordinati dopo la sua morte. È una frase tipica della Weil; eloquente e poetica, ma anche dogmatica nel tono: dove regna il principe di questo mondo, là regnerebbe la menzogna. Visione che non può essere ignorata (come sempre tentano di fare le “anime belle” di professione), ma che è troppo cupa e unilaterale. E questi giorni di massacri ne forniscono una prova: vogliamo reagire alla disperazione e allora ci aggrappiamo alle analisi, ai cosiddetti “fatti”. Solo che poi entriamo nel terreno scivoloso che (non) divide i fatti dalle interpretazioni.

Nella stessa giornata in cui il cronista che nel giorno dell’assalto a Israele ribadiva, nella trasmissione televisiva più popolare negli Stati Uniti, l’onnipresente frase sull’attacco “completamente imprevedibile”, alcuni di noi ricordavano di aver visto quello stesso reporter, circa una settimana prima, “incorporato” (embedded) come testimone in un video autorizzato dall’esercito israeliano, che mostrava un plotone di soldati impegnati in una notturna e cruenta caccia all’uomo, nei vicoli di Gaza. Difficile allora evitare la deduzione che si sapesse, che qualcosa stava bollendo in pentola. E  magari si pensava, con una non implausibile analisi (terribile logica delle guerriglie) di lasciarla bollire, in attesa di  una provocazione che avrebbe a sua volta consentito una reazione schiacciante; ma poi, la pentola è esplosa.

E politicamente, che cosa c’era di tanto imprevedibile? Certi gruppi che fanno parte (volenti o nolenti) dello Stato israeliano si sono sentiti scavalcati dall’inizio delle trattative tra l’Israele ufficiale e l’Arabia Saudita e hanno voluto buttare qualcosa sul tavolo dei negoziati, per avere un qualche ruolo in essi; ma la brutalità della mossa gli si è rivolta contro (uno dei tanti deludenti, o saggi che dir si voglia, insegnamenti della politica è che le analisi costi/benefici non funzionano mai).

Ben prima dei nostri tempi (siamo agli inizi del Novecento) il premio Nobel britannico Rudyard Kipling, autore di grandi romanzi come Kim, chiamava col nome di Grande Gioco gli intrighi politico-spionistico-militari che si svolgevano allora in India. E oggi assistiamo come “atterriti notai” (espressione del critico e saggista Luigi Russo, che allora scriveva nel contesto dell’Europa sconvolta negli anni Trenta) al terribile Grande Gioco delle vaste guerre civili del Terzo millennio, che insanguinano l’Europa da Oriente (guerra civile fra Ucraina e Russia, la quale ultima è anch’essa, non è inutile ricordarlo, parzialmente parte dell’Europa, e dove si oppongono due nazioni che fino a qualche tempo fa erano una sola), fino alle coste del Mediterraneo. Dove la situazione è ancora più intricata, perché c’è uno Stato ufficialmente esistente che dichiara guerra non a un altro Stato (che non esiste), ma a una parte della sua stessa popolazione.

Il gergo politico-giornalistico corrente tradisce qualcosa nel momento stesso in cui la esprime, parlando di “azioni irresponsabili”. Ma la retorica, come ben sapevano i filosofi antichi e sanno gli psicanalisti moderni, è una struttura tanto efficiente da poter divenire una trappola. La situazione di “irresponsabilità” (per esempio quella di una popolazione di un Paese che non ha diritto alla cittadinanza di quel Paese) è a due tagli: dall’uno si legge come impotenza, dall’altro come autorizzazione alla ribellione.

E allora, risulta confermata l’idea della società come ambito essenzialmente diabolico? Ma no, demonizzare genericamente la società umana non serve: questa creatura storta è in continua via di riaggiustamento. E direi che dobbiamo imporci di vederla così, e di non pensare esclusivamente nei termini di un Grande Gioco. Perché nelle strade e nei campi scorre sangue non cinematografico; i morti, sono autentici; i lutti, veri. E se il sangue fa sempre orrore, il sangue sparso fra coloro che sono quotidianamente prossimi nell’esistenza è particolarmente orribile.

Da un lato, tutto ciò rafforza per contrasto il senso di pace; dall’altro, intensifica la sensazione di (ancora una volta) impotenza. L’indispensabile attività della pacificazione è pur sempre un’attività di/fra potenze; in quanto tale, necessita di certe formalità e gerarchie, di certe asserzioni di autorità, di tempi lunghi ecc. Insomma, rischia di essere qualcosa come una mimesi della guerra; anche se – bisogna ripeterlo – non possiamo fare senza questo ingrato, dunque vitale, lavoro (per esempio, il fatto che il Vaticano sia spesso un po’ snobbato come agente di pace dai cosiddetti esperti della politica è la miglior dimostrazione della sua affidabilità).

Ma la pace in senso proprio è un’altra cosa: è semplicemente (!) il desiderio della pace. Che sorge imprevedibilmente, nel giorno pieno o nel dormiveglia, e che può anche durare e scomparire (non ci sono regole) in pochi istanti.

I credenti chiamano questo, di solito, preghiera; i non credenti ne parlano forse come di fervido desiderio. Parola che i più sofisticati analisti della psiche considerano con fiero materialismo, come una pulsione oscura e implacabile che scorre terra terra; ma la cui etimologia, invece, punta verso il cielo. Certo, l’affidamento al desiderio non giunge a un risultato che si possa quantificare o precisare, perché, a differenza del lavoro della pacificazione, l’esercizio del desiderio fervente è un’esperienza individuale, modesta, quasi casalinga. Eppure senza di esso tutto l’affaccendamento politico-diplomatico rischia di perdere senso.

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Catilinarie

Pubblicato con il titolo redazionale: ELEZIONI USA/ E se dopo la caduta di McCarthy si allargasse il “partito” di Catilina?, in “IlSussidiario.net”, 6 Ottobre 2023.

La sfiducia a McCarthy e la notiziola di un sondaggio di poco peso costituiscono una miscela interessante, capace di gettare una luce rivelatrice sulla politica Usa

Chi, nella serata (pomeriggio negli Usa) del 3 ottobre, non ha assistito alla trasmissione televisiva completa in diretta della seduta parlamentare congiunta nel corso della quale Kevin McCarthy, fino a quel giorno Speaker della Camera (seconda carica dello Stato), è stato privato della sua posizione, si è perso uno spettacolo probabilmente unico in una vita: infatti questo rivolgimento ha avuto luogo solo una volta nella repubblica americana, più di un secolo fa (1910); a meno che.

A meno che questo rovesciamento non serva da precedente a una successione di Speaker precari, un po’ sul tipo dei Priori nella Firenze medievale, per intenderci. E questo spettro del caos è stato puntualmente evocato dai Repubblicani più timorati, durante la lunga seduta conclusa da un voto semplice e chiaro in cui ogni parlamentare si è alzato e ci ha messo la faccia, dicendo “Sì” alla mozione di sfiducia, oppure rifiutandola col suo “No”.

La prima impressione di chi osserva il mondo stando fra due mondi (America ed Europa) è stata una riconferma: riconferma del divario fra la vita parlamentare in Usa e in Italia. Nell’aula americana regnavano l’ordine, la dignità, la puntualità, la calma: interventi regolati al secondo, nessuna interruzione, toni sempre cortesi anche se a volte molto decisi (a un certo punto il presidente di sessione, avendo udito alcuni mormorii dal fondo della sala, ha battuto il martelletto e ha ammonito severamente: “Non siamo venuti qui per chiacchierare”).

Dell’atmosfera che spesso regna nell’aula di Montecitorio (tanto più solenne ed elegante di quella di Washington D.C., dunque il contrasto è ancora più penoso), meglio non parlare; ma questa precisazione andava fatta, per mettere in guardia da certe rozze immagini ancora correnti riguardo alla politica americana.

Soprattutto, è emersa ancora una volta la profondità storica della vita politica contemporanea in America, che è rigorosamente ordinata secondo le sue originarie categorie settecentesche; mentre la politica moderna in Italia vive ancora un’epoca di giovinezza un po’ scalcinata. D’altra parte, l’Italia può prendersi facilmente la rivincita, se solo sappia ripensare le sue vere origini.

Non si esagera infatti, dicendo che il dibattito di martedì 3 ottobre (nonostante i prevedibili torrentelli di veleno riversati il giorno dopo da parte democratica), non è sembrato del tutto indegno delle sedute senatorie nell’antica Roma: per la dignità, per il senso di urgenza, per gli scatti di eloquenza. E questo parallelismo non è archeologico, ma si sta rivelando pertinente.

Circola infatti in questi giorni, nei quotidiani americani, una strana statistica (fragile, come la maggior parte delle statistiche; ma che, come la più gran parte delle statistiche, ci dice qualcosa di significativo se l’analizziamo per così dire di sghembo), secondo cui un numero crescente di uomini americani – le donne, pare, un po’ meno – pensano all’antica Roma almeno due o tre volte alla settimana. Come in tutte le società di mascherato conformismo repressivo (cioè, tutte le società occidentali; le altre, non si preoccupano nemmeno di mascherarlo), certi discorsetti leggeri che svolazzano per l’aria alludono a preoccupazioni serie: è un modo di parlare di politica, ma indirettamente e con finta buffoneria. C’è sempre stata in effetti negli Usa una tradizione, tra l’esoterico e il folclorico, secondo la quale la storia americana sarebbe in certo senso un eco se non un parallelo di quella romana. Ma adesso, quello che era un tentativo di trovare patenti di nobiltà per la storia di questi eterni nuovi-arrivati rispetto all’Europa è diventato una seria metafora, attraverso la quale l’impero americano ammette senza dirlo il timore di un’incombente decadenza.

E allora, domanda bizzarra ma non priva di serietà: lo scontro in cui il quarantunenne deputato conservatore Matt Gaetz dal profilo un po’ lupesco (capo degli irriducibili otto deputati o giù di lì del gruppetto di “destra” repubblicana) è riuscito – mentre era circondato dal gelo ostile della maggioranza dei suoi compagni di partito che non l’hanno mai applaudito – a colpire e affondare la navicella di Kevin McCarthy, non assomigliava forse a Catilina, divulgato come nemico dello stato romano ma riabilitato anche di recente, e con tutte le credenziali di sinistra? È ben vero che di fronte a lui non stava un singolo avversario con la statura di Cicerone; ma, come detto, non sono mancati momenti di nobile eloquenza, con un certo ciceronianismo yankee, a difesa delle gerarchie stabilite.

Ma qui non si fa dell’accademismo: la questione resta politica e più che politica, sociale, umana; è in gioco il presente-futuro in Usa. Può darsi che il plotone degli Irriducibili Otto vada a schiantarsi contro il muro dei buoni ordinamenti e delle buone maniere, e sarebbe una fine, per così dire, catilinaria. Ma può anche darsi che costoro siano più lucidi di quel che sembri; e che abbiano, con la loro ribellione solo apparentemente irresponsabile, metodicamente abbozzato una strategia da non sottovalutare, la quale riguarda direttamente le prossime elezioni presidenziali.

Una strategia che i malevoli potrebbero chiamare un ricatto, indirizzato al governo prima di tutto, ma anche alla massa molle del Partito repubblicano; e che i più benevoli, invece, potrebbero definire come una mossa per rilanciare il retaggio di Trump (sì: c’è un retaggio di Trump), che non richiede necessariamente la presenza diretta di Donald Trump. E del resto, nessuna delle due strategie (confondendo i benevoli e i malevoli) esclude l’altra: il “ricatto” può divenire “riscatto” con l’aggiunta di una semplice “s”.

Questa non è una dichiarazione cinica. Il cinismo è la caricatura del realismo, laddove il fondamento di quest’ultimo è l’idealismo, se lo si prende sul serio. Ciò che conta, come sempre, è la visione che si prolunga e che guarda lontano.

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Italianistica post-coloniale

Pubblicato come intervista con il titolo redazionale: IL CASO/ Valesio (Columbia): salviamo gli autori italiani dall’”attacco” americano, in “IlSussidiario.net”, 4 Settembre 2023.

Come “stanno” i nostri autori negli Usa? “Occorre resistere sul terreno della letteratura”. A dirlo è PAOLO VALESIO, docente di italianistica nella Columbia University di New York

“Occorre resistere sul terreno della letteratura”. A dirlo è Paolo Valesio, docente di italianistica nella Columbia University di New York. Ilsussidiario.net ha fatto un punto con lui sullo stato dell’italianistica negli Stati Uniti. I nostri autori, infatti, si trovano in una strana situazione: quella di subire una pressione sempre più forte, una “contaminazione” invadente di problematiche e di temi ad essi estranei, come quelli riguardanti il gender, l’uguaglianza dei sessi, la povertà, le migrazioni, eccetera. Temi che c’entrano poco o nulla con D’Annunzio, Ungaretti e Montale, figurarsi con Petrarca e Boccaccio. Avanti con la letteratura, dunque. “Non sarebbe la prima volta che una posizione apparentemente conservatrice si rivela essere il vero elemento di progresso” dice Valesio.

Professore, qual è lo stato dell’italianistica negli Stati Uniti? La nostra letteratura suscita ancora fascino e attrae studenti nei dipartimenti di italianistica?

La diminuita – ma tutt’altro che scomparsa – attrattiva della letteratura italiana è parte di un processo generale di calo d’interesse verso gli studi propriamente letterari, dunque non è un fenomeno che riguardi soltanto l’italianistica. D’altra parte la letteratura italiana, con il suo carattere fortemente umanistico nel senso più tecnico e filologico del termine, presenta particolari difficoltà per chi in generale è disabituato a un certo tipo di preparazione – per esempio, una qualche familiarità con la lingua latina.

Nel campo delle humanities, in che cosa si differenziano i metodi della ricerca europea da quelli statunitensi?

La ricerca statunitense è da molti anni caratterizzata da una forte influenza di temi ideologici (come il femminismo) e sociali (per esempio, i cosiddetti “cultural studies”) nella ricerca letteraria.

Il modello di ricerca italiano, orientato alla ricostruzione complessiva del quadro storico e dei fenomeni letterari connessi, è considerato ancora un modello da imitare o è stato surclassato dall’analisi statunitense caratterizzata dal settorialismo e dall’iperspecializzazione?

Mi sembra che il conflitto (o, più ottimisticamente, la dialettica) fra ricostruzione complessiva e settorialismo esista sia nel contesto statunitense sia in quello dell’italianistica italiana.

Come il paese “ospite” condiziona lo studio dell’italianistica?

Avevo parlato qualche tempo fa di un processo di “colonizzazione” (semplificando, ma non poi troppo) per cui le università angloamericane dettano oggi le tematiche e i metodi della ricerca italianistica. Oggi invece parlerei piuttosto di una “colonizzazione” reciproca: gli italianisti americani inseriscono nella ricerca letteraria italiana tematiche ideologiche e sociologiche, mentre gli italianisti italiani controbattono con l’inserzione di tematiche più propriamente politiche.

Quali vantaggi ha portato il “condizionamento” americano?

In generale, al di là dell’introduzione a volte sommaria di certi contenuti, il vantaggio è quello di sviluppare una maggiore consapevolezza metodologica.

Il successo di certe tematiche (problema della razza, identità sessuale…) e di certe prospettive e ambiti di ricerca (gender studies, cultural studies…) è in parte frutto dell’ingerenza della politica nella vita accademica americana? 

Nell’italianistica più che in altri settori linguistico-letterari si nota uno sconfinamento della micropolitica universitaria in macropolitica: da un certo opportunismo “politicamente corretto” nella scelta dei corsi di studio e dei soggetti di tesi di laurea si tende a traboccare verso un attivismo ideologico e semi-partitico.

Questa eventuale ingerenza assicura allo studio umanistico un ancoraggio alla realtà o rappresenta un limite allo sviluppo libero e disinteressato dell’italianistica?

Sorge il sospetto che un certo atteggiamento condiscendente e ipercritico dell’italianistica “americana” verso l’Italia costituisca in parte un alibi incoraggiato dagli ambienti universitari americani per spostare l’attenzione dai problemi americani, che sono in generale più gravi di quelli italiani: maggiore rigidità della legislazione migratoria, tumultuosità della problematica di identità sessuale, maggiore oppressività del controllo statale, militarismo, maggiori pulsioni di violenza (pena capitale, proliferazione delle armi da fuoco), nazionalismo fondato sull’idea dell’ “eccezionalismo” americano.

Quali autori predilige in sede didattica e perché?

La scelta dei miei autori, che comunque non è mai stata iperspecialistica, è sempre nata dai miei desideri di ricerca, e poi è stata portata sul terreno della didattica. Questa continua a sembrarmi la priorità giusta: altrimenti, se si punta subito sulla didattica, si corre il rischio della ricerca della popolarità, dunque della strumentalizzazione ideologica. Comunque i miei autori prediletti sono in generale autori, per così dire, di frontiera; come Francesco d’Assisi e i “Fioretti”, Teofilo Folengo e la poesia macaronica, la Scapigliatura e il racconto fantastico, Gabriele d’Annunzio e il simbolismo, Antonio Fogazzaro e il modernismo, Filippo Tommaso Marinetti e il futurismo.

Quali scelte adottare?

Prima di tutto, occorre resistere sul terreno della letteratura: non sarebbe la prima volta che una posizione apparentemente conservatrice si rivela essere il vero elemento di progresso.  

Aggiornamento

Nel maggio del 1987 pubblicai sul mensile «Alfabeta» un breve articolo intitolato “Il nuovo tribalismo”, di cui per il momento non rintraccio una copia. In esso notavo con preoccupazione (e stavo parlando della scrittura letteraria) la tendenza di certi gruppi a negare agli estranei la, per così dire, autorizzazione  morale a descriverli, limitando di fatto tale “autorizzazione” ai membri di quel dato gruppo: solo i neri potrebbero parlare dei neri, solo le donne delle donne, ecc. Vari anni dopo, nel 2013, fu pubblicata online sul quotidiano approfondito «IlSussidiario.net»  l’intervista che ho riprodotto qui sopra, e che si colloca nella stessa linea di riflessione. 

Questo recupero è dovuto a due considerazioni generali. La prima è che, nonostante la retorica della velocità da cui siamo bombardati ogni giorno, i movimenti culturali e sociali si muovono lentamente: già negli anni Ottanta si potevano percepire certi fenomeni negativi che a volte sembrano essere “scoperti” oggi. La seconda considerazione è in effetti una autocritica (dunque questa mia ripresa dell’articolo non ha nulla a che fare con un’auto-promozione). Quelli  di noi (non eravamo, e tuttora non siamo, moltissimi)  che avevano già notato, nel cuore dell’impero, questi fenomeni di confusione intellettuale ed etica  ––  i quali com’era prevedibile si sarebbero poi diffusi ai margini di quello che allora sembrava ancora meritare il nome di impero ––  avrebbero forse dovuto insistere di più, già in quegli anni di fine secolo nell’analisi critica di questi fenomeni. Ma non è mai troppo tardi per correre ai ripari.

  P. V.  ––  20 settembre 2023

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Guerra Sporca

Pubblicato con il titolo redazionale: OPPENHEIMER/ La “teologia” della morte e il pudore di non farci vedere i giapponesi, in “IlSussidiario.net”, 4 Settembre 2023.

“Oppenheimer” di Christopher Nolan resta confinato alla nicchia dignitosa dei “movie”. Non è un “film” degno di questo vero nome. Ecco perché

Ogni testo cinematografico cade in una di queste tre categorie: film (raro), movie (non troppo frequente), flick (la maggior parte dei casi). Come distinguerli? Il film ha un’anima, ovvero (se questo termine appare troppo teologico) un cuore; il movie (diciamo: “la pellicola” oppure: “il filmone”) non possiede completamente l’anima anche se la desidera, e in effetti la fa venir fuori, ma a sprazzi, perché è troppo distratto dal contemplare se stesso; il flick (“il filmetto”) da parte sua, l’anima non l’ha e non la desidera, mirando solo alla distrazione come “puro” divertimento (ma questa coerenza è al tempo stesso un pericolo: troppo ossessionato dal voler divertire, il filmetto fa spesso cilecca in questo senso).

Venendo al punto: dove si colloca, in questa classificazione semplice semplice e poco “scientifica”, il testo cinematografico Oppenheimer del regista anglo-americano Christopher Nolan, che sta trionfando nella critica e negli incassi? Be’, il suo successo non è immeritato, e lo spettacolo è bello: ritmo coinvolgente, dialoghi vivaci, attori brillanti, grandi sfondi che ben simboleggiano gli estremi geografici e culturali degli Usa, dal Nordest al Sudovest passando per Washington D.C., col sicuro effetto dei “palazzi del potere”. E la scena dell’esplosione nucleare è eccellente.

Allora, perché Oppenheimer resta confinato alla nicchia dignitosa del movie (la pellicola, il filmone) che sul momento affascina ma che poi non sarà troppo difficile dimenticare? Prima di tutto è un po’ troppo esplicito nella sua auto-importanza, che si nota già nella durata di circa tre ore, come in quei libroni di biografie romanzate o di romanzi gialli che costruiscono la loro immagine letteraria impacchettando carta. E non si vuole con questo dir male della biografia – un mattoncino di circa 600 pagine – da cui è tratta la pellicola, perché non è giusto criticare un libro che non si è letto.

In secondo luogo, Oppenheimer è – come la maggior parte dei filmoni – troppo indaffarato (busy, per dirla all’inglese): per metà appartiene al genere competizione sportiva (realizzazione di una difficile impresa, qualunque sia la sua natura), e per metà all’intrigo politico-legale (con le classiche scene processuali, dove non si può mai sbagliare). Ma il problema di questa pellicola è più profondo, perché di carattere etico; e, come tutti i veri problemi etici, per comprenderlo bisogna fare attenzione ai suoi sintomi estetici. Come la scena di nudo.

Dove il problema non è, per carità, l’incontro di due corpi elegantemente (e parzialmente) spogliati: questo è un passaggio quasi obbligato, nel rituale di un movie. No: il guasto sta altrove, e precisamente nel libro che la ragazza, proprio nel corso dell’azione erotica, sceglie di squadernare sul seno scoperto perché il suo partner glielo legga (e Robert prontissimo traduce a vista alcuni dei versi dal sanscrito). Ora: il gesto in sé è un po’ ridicolo (idea hollywoodiana di come vivacizzare l’intelligenza); ma il fremito lievemente osceno, dunque il problema estetico che diventa etico, sta nella natura di quel libro, che è la Bhagavad Gita, cioè il singolo testo sacro forse più importante per l’induismo (pare che nelle versioni del film proiettate in India e in Pakistan la scena del nudo sia stata “editata”; ed è lecito pensare che forse la reazione non fosse moralistica, ma propriamente religiosa: due atteggiamenti ben distinti, anche se si tende a confonderli).

Questo comunque è un problema dell’invenzione registica. Ma l’altro brividino è certamente attribuibile a Robert Oppenheimer: la sua dissacrante (o consacrante; qual è peggio?) idea di usare uno dei capolavori della poesia spirituale inglese, cioè il testo di John Donne del 1633 che comincia “Fai breccia nel mio cuore, o Dio in tre persone”, per battezzare (diciamo così) il terrificante progetto della bomba atomica. E l’inventore ci tiene, a questa idea: perché identifica la poesia, e il piano di distruzione, con una parola forte come “Trinità” (le poesie dell’epoca, com’è noto, non avevano titolo).

Lo spettatore non-lettore del libro ignora il ragionamento dietro questa scelta (e sarà interessante scoprirlo). Ma ciò che qui conta sono gli effetti cinematografici, e l’effetto è obiettivamente terribile. Tanto è vero che il verso citato (che è mormorato frettolosamente dall’attore protagonista) non è doppiato, così che lo spettatore italiano (e, se è per questo, anche lo spettatore americano medio) non ha idea di come funzioni, questa deformazione di un mondo spirituale.

Resta il fatto che quell’etichetta, “Trinità”, appiccicata su un massacro genera una sorta di vergogna, e persiste nella mente degli spettatori (i quali sono più sensibili di quello che spesso pensino i registi). Un disagio etico-estetico percorre dunque questo filmone che scherza col fuoco (come il Prometeo del titolo della biografia, che definisce il suo eroe come Il Prometeo americano, e allora lo spettatore-che-non-ha-letto si chiede: “Ma come? Prometeo ruba il fuoco a Zeus per aiutare l’umanità; che c’entra questo con un fuoco che brucia vive le persone?”).

Ma forse è proprio questo disagio che rivela quel tanto di anima che c’è nella pellicola: è l’effetto “battuta impertinente” cui a volte non si resiste, per esprimere una qualche reazione di fronte a uno spettacolo che altrimenti lascerebbe ammutoliti. E allora il vecchio motto “Scherza coi fanti e lascia stare i santi” sembra rovesciato in “Scherza coi santi e lascia stare i fanti” (dove i “fanti” sono i bombardieri portatori di sterminio a Hiroshima e Nagasaki, i nomi che resteranno per sempre).

Si potrebbe spiegare così, la lacuna già notata in recensioni scritte e orali, cioè l’assenza dei giapponesi in tutta questa pellicola: è qualcosa come una forma di pudore.

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“TEOLOGIA” DEL NABUCCO

Pubblicato con il titolo redazionale: Oltre il “Va, pensiero”, la teologia drammatica del potente Nabucco, in “IlSussidiario.net”, 27 Agosto 2023.

Il “Nabucco” di Verdi quest’estate è stato riproposto all’Arena di Verona. Un’opera che miscela brutalità e passione, da non limitare al “Va, pensiero”.

Il fascino principale dell’opera italiana ottocentesca è dovuto essenzialmente a una mescolanza di brutalità e di passione. E Nabucco di Giuseppe Verdi ne è un esempio efficace, cominciando dal libretto di Temistocle Solera, la vita del quale (1815-1878) attraversa dinamicamente  tutto il Risorgimento italiano, in cui si sente vibrare lo spirito dell’autore. Solera, figlio di un avvocato carbonaro imprigionato allo Spielberg, fu poeta, librettista, narratore, compositore musicale, impresario teatrale, direttore d’orchestra, funzionario diplomatico in Spagna e in Italia, organizzatore di forze di polizia dalla Basilicata all’Egitto, mercante d’arte e antiquario a Parigi (ci si chiede: è possibile che non si sia ancora scritto un romanzo su di lui?).

Verdi si è impadronito con forza dello spirito del libretto (in cui Solera miscela energicamente alcuni testi drammatici francesi) e questo si sente fin dall’ouverture; dove la vena di dolcezza del “Va, pensiero” emerge, è vero, ma brevemente: quello che predomina è il suono bronzeo degli avversi poteri in marcia. Il “Va, pensiero”, la cui fama ha offuscato il resto dell’opera, è un’estrapolazione che può risultare ingannevole. O meglio: il pubblico giustamente percepisce che quello è lo scoglio di pace cui aggrapparsi e sostare per prender fiato: ma intorno, non si può dimenticarlo,  si stende il  mare tempestoso di quei quattro atti.

L’opera si accentra nella personalità del re assiro Nabucodonosor. La violenza della sua conquista di Gerusalemme prosegue nella violenza uguale e contraria del fulmine che lo abbatte e lo rende temporaneamente folle. Ma quell’atterramento è anche il preludio del suo recupero della ragione, e poi della conversione al giudaismo, attraverso la quale Nabucodonosor è messo faccia a faccia con la virtù dell’umiltà e con il dolore familiare. E sarà pronto ad accogliere la rivincita ebraica sull’esercito assiro. Il Nabucco, in effetti, rivela la sua forza brutale ancor prima che si oda una nota o si ascolti una parola:  la mostra cioè fin dal titolo, che taglia corto con una confidenzialità aggressiva alla solennità di quel lungo nome, Nabucodonosor (è come se la mano degli autori gli togliesse di colpo la corona regale e gli sbattesse in testa il berretto di un diminutivo: Nabucco).

Il pensiero però continua a tornare, non ai passionali ed eroici protagonisti, ma a due personaggi secondari che tuttavia hanno la chiave per dissigillare tutta la concezione dell’opera. Ecco il paradosso e la gran virtù del melodramma: da un lato, la musica della passione e violenza degli istinti; dall’altro, dialoghi che  sviluppano complesse strategie di riflessione. Due terribili vegliardi si fronteggiano con la profondità minacciosa delle loro voci di basso: Zaccaria Gran Pontefice degli Ebrei e l’anonimo Gran Sacerdote di Belo (cioè Bel o Ba’al, la maggiore divinità del mondo religioso assiro-babilonese). In sostanza l’opera drammatizza il duello fra monoteismo e politeismo. Quel poderoso nesso estetico (che poi Wagner avrebbe teorizzato) di musica, parola, scenografia, coreografia,  all’interno per di più di uno straordinario monumento romano, finisce col farci sentire quello che c’è di spirituale nel politeismo, la spiritualità per cui anche la Grecia è almeno altrettanto orientale che occidentale e che trascende la sua caricatura “pagana”. E qui non è in gioco qualche olimpo decorativo, ma l’esperienza interiore.

Paradosso (ma il paradosso è l’elemento centrale di ogni religione): proprio chi ha dentro di sé uno spirito monoteistico è particolarmente preparato a sentire ogni tanto, in balenii anche intensi, ciò che di serio e profondo hanno da dirci gli dei del politeismo. Non si parla beninteso di rituali neopagani e di cultismi vari, ma di momenti in cui l’individuo coerentemente (e anche ateisticamente) monoteistico riflette sugli dei di qualunque religione, con un’attenzione rispettosa che va al di là dell’estetica e dello storicismo filologico.

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Palinodia della pace

Pubblicato con il titolo redazionale Tra de Foucauld e Meuschke: la pace nasce solo dai nostri limiti, in “IlSussidiario.net”, 16 June 2022.

Palinodia della pace

In un recente seminario universitario di traduzione letteraria, uno degli esempi che il coordinatore aveva proposto per la discussione era quella frase del discorso evangelico sulle Beatitudini che comincia: “Beati gli operatori di pace” (Matteo 5, 9). Cioè, questo è ciò che dice la traduzione canonica (quella della Cei); perché, per esempio, la traduzione dei Vangeli nell’edizione “Millenni” dell’Einaudi recita: “Beati gli artefici di pace”; e circolano anche altre versioni, che parlano di “artigiani di pace” o “costruttori di pace” (la traduzione letterale di quella che nell’originale greco è una parola composta sarebbe: “pacefacenti” o “pacefattivi”, ma le traduzioni letterali sono spesso, come in questo caso, non del tutto soddisfacenti).

Beati gli operatori di pace

D’altra parte ogni traduzione, al di là dei tecnicismi, è più importante perfino di se stessa; perché è un’esperienza trasformatrice. Si crea infatti – in chi traduce, o esamina una traduzione che impegni veramente il pensiero – una piccola metamorfosi, che porta a ripensare i propri rapporti, non solo con il testo originario, ma anche con la realtà circostante e con lo spirito di coloro che condividono quella traduzione. 

A riprova: l’unico intervento in quel workshop di circa due ore (oggi gli studenti, comprensibilmente, stanno ancora districandosi da un periodo di passività distanziante) è stato fatto da una studentessa che aveva posto un’obiezione, e questo è il tipo di intervento più interessante. Il coordinatore infatti aveva preso le distanze da quel termine “operatori”, che gli pareva riflettere un linguaggio alquanto burocratico, e aveva apprezzato invece la latitudine mentale permessa da un epiteto come “artefici”; la giovane invece difendeva “operatori” in nome di quella che a lei pareva una significativa attualizzazione del testo.

Beati i burocrati della pace

Insistere nel dirimere tale questione è sostanzialmente inutile; quello che importa notare è che la tensione conoscitiva era nata dalla parola chiave: “pace”

La vera domanda dunque, che è filosofica e sociale piuttosto che filologica, è la seguente: di che cosa si parla, quando si parla di pace? “Pace” è un’idea insieme inclusiva ed esclusiva. Inclusiva, perché racchiude tutti quei bei sentimenti che ognuno di noi conosce; ma anche esclusiva (con una terminologia biblica, si potrebbe definirla “gelosa”): la pace è gelosa della propria autonomia; e non ama che, appena la si evochi, si passi subito a parlare di guerra. Nell’enorme confusione (in parte inevitabile, in parte voluta per calcoli propagandistici) dei discorsi correnti su questo tema, si finisce con il parlare in effetti di “paci” piuttosto che di pace: paci come intervalli di respiro dentro una serie di conflitti, ovvero, paci concepite come la punteggiatura della guerra.

Pace ma solo dopo la tempesta

Rispetto a tutto ciò mantiene il suo valore una visione contemplativa (spirituale, intima) della pace, connessa fra l’altro a una nobile concezione secondo la quale non si potrebbe diffondere la pace se non la si possedesse già interiormente. Come scriveva Charles de Foucauld (1858-1916) citato in un numero recente della rivista Oasis: “Senza questa vita interiore anche lo zelo, le buone intenzioni, il lavoro intenso non producono nessun frutto. Si tratterebbe di una sorgente che vuol dare la santità agli altri, ma inutilmente, perché non ce l’ha”. 

Signor Vladimir Putin, santo subito?

Qui il mistico esploratore francese adopera una parola grande e grave: santità. Ma la pace è una categoria più concreta e più “laica”, per cui l’idea che ci si debba prima assicurare della perfezione della propria vita interiore e poi diffonderla all’esterno appare non del tutto adeguata; e in questo senso, la presente riflessione è una sorta di palinodia rispetto a un’analisi già comparsa sulle pagine di questo giornale.

Alexei Navalny fa il segno della pace

L’impulso alla pace proviene infatti, in tanti casi, da una personalità non pacificata che si rivolge direttamente o indirettamente ad altre personalità, anch’esse non pacificate, cercando (consapevolmente o no) una sorta di reciproco aiuto nel fare un poco di pace. Nonnel senso di: “Su, smettiamo di contendere e facciamo la pace”, dove il “fare” si riferisce alla formalità di un patto; bensì con riferimento al “fare” come a una raccolta di pezzetti (più, non è possibile) di comportamenti e pensieri pacificanti. Insomma: due o più insufficienze (di spirito di pace) possono arrivare a creare qualcosa di sufficiente.

È suggestiva in questo senso una frase dal poemettino in prosa Intravisto,da poco pubblicato in una rubrica di poesia dalla poetessa americana Claire Meuschke: un testo scritto in uno stile colloquiale apparentemente semplice, e molto americano, che poi risulta (e qui si ritorna al punto iniziale) difficile da tradurre in un italiano scorrevole. Dice, quella frase poeticamente strutturata: “Passo, dalla sensazione che conosco me stessa, alla sensazione che una volta avevo amici che mi conoscevano bene, anche se io non mi conoscevo rispetto a loro”.

Allora: costruire un atteggiamento pacifico o pacificante significa anche ri-conoscersi come persona frammentariamente pacifica guardandosi con gli occhi di altre persone che in sé contengono una (più o meno piccola) parte di pace.

Alexei Navalny, «pacefacente» di cuore

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Lo strano pensiero della pace

Una preghiera dopo i bombardamenti di San Lorenzo, Roma, luglio 1943

Lo strano pensiero della pace

Apparso con il titolo Russell e quel pensiero della pace che rifugge da ogni formula, in “IlSussidiario.net“, 21 April 2022.

“L’aspetto eticamente caratteristico del misticismo è l’assenza di indignazione e di protesta, la gioiosa accettazione, il rifiuto di ammettere come verità ultima la divisione in due campi ostili, il bene e il male. Questo atteggiamento è conseguenza diretta della natura dell’esperienza mistica: al suo senso di unità è legato un sentimento di pace infinita. Si può anzi sospettare che sia il sentimento di pace a produrre, come avviene nei sogni, l’intero sistema di convinzioni collegate”. 

Chi scrive queste parole è un filosofo la cui immagine dominante è quella della rigorosa razionalità: Bertrand Russell. L’autore specifica che si tratta di un saggio “a carattere divulgativo” – aggettivo che suona un po’ strano oggi, per uno scritto il cui titolo, Misticismo e logica, contiene due parolone difficili da maneggiare, anche se per ragioni quasi opposte: la maggior parte delle persone sono convinte di pensare in modo “logico”; e quanto al misticismo, nessuno sa esattamente che cosa sia.

Bertrand Russell

Forse questi termini avevano un suono un po’ diverso nel 1914, quando uscì quello scritto di Russell (ripubblicato quest’anno insieme a vari altri saggi in un volume il cui titolo collettivo è appunto Misticismo e logica, a cura del Corriere della Sera). Ma poco importa la terminologia: le questioni in gioco, che peraltro quel saggio discute in forma assai chiara, sono urgenti e fondamentali oggi come lo erano più di un secolo fa. Basti notare che queste parole su “un sentimento di pace infinita” apparivano all’inizio della Grande Guerra: è l’ironia della storia, che ovviamente si fa sentire anche quest’anno. Ed è proprio questo ciò che ne determina l’urgenza; perché non c’è bisogno di essere “mistici” per provare questi sentimenti: basta interrogare la propria sensibilità. 

Che cos’è il misiticismo?

Una docente di lingua italiana in un liceo cattolico di Brooklyn scriveva recentemente in una email: “Se tutti noi su questo benedetto pianeta terra dedicassimo più tempo e spazio alla nostra vita interiore, le situazioni di guerra, per esempio, sarebbero molto più rare. Se non si coltiva la pace interiore con il nostro Creatore e con noi stessi, come possiamo aspettarci di andare più o meno d’accordo con gli altri? Sembra una cosa banale e anche trita e ritrita, ma la verità a volte è anche molto semplice, più semplice di quanto ci si aspetti”. 

In effetti, potremmo chiamare questa affermazione una “briciola di filosofia” (e Briciole filosofiche, cioè una filosofia in briciole è il titolo di un libro di nientemeno che Søren Kierkegaard). Chi pensa deve prestare attenzione anche alle briciole del pensiero, proprie e altrui; e ogni pensiero ne stimola altri che possono anche prendere vie in parte diverse.

Nulla di banale, dunque, nelle frasi appena citate; ma guardiamoci dall’illusione che vi siano formule semplici e chiare, seguendo le quali la pace sia assicurata. Illusioni di questo tipo sono state coltivate anche da molti illustri filosofi, ma tali restano. È il caso per esempio del saggio rigorosamente laico di Immanuel Kant: Per la pace perpetua. Progetto filosofico, risalente al 1795. Sono pagine pensose, ovviamente (e rafforzate da una prefazione e un saggio postfatorio, nella riedizione Feltrinelli dell’anno scorso, con fior di citazioni da una vastissima bibliografia sulla pace e il pacifismo); ma anche pagine che oggi, francamente, suonano come un’esasperazione quasi grottesca del razionalismo illuministico.

Meglio dunque lasciare da parte un certo pacifismo astratto: la guerra (non ci sarebbe bisogno di dirlo) è “sporca”; ma anche la pace – il cui perseguimento ovviamente resta vitale – non è mai completamente “pulita”: per l’inevitabile ambiguità delle sue manovre e del suo linguaggio, per i suoi sempre ridotti e temporanei risultati (nei quali comunque emerge l’importanza spirituale dell’attività diplomatica). Sembrerebbe allora che non resti che ripiegare sullo scetticismo (le guerre ci saranno sempre) e, com’è stato detto, su un certo nichilismo, per cui l’unica soluzione sarebbe l’aumento continuo dei contrapposti poteri nucleari, il vecchio “equilibrio del terrore”.

Santa Teresa d’Avila

In verità la pace e la guerra a cui si pensa in tal modo sono essenzialmente strutture intorno alle quali noi costruiamo le nostre fantasie e paure; soprattutto in queste agitate notti europee in cui sperimentiamo il triste privilegio di sentire una traccia di quelle che sono state le sensazioni delle generazioni precedenti, tra il 1914 e il 1945. Ma qui la risorsa fondamentale è quella già menzionata: l’esperienza interiore; che, se orientata verso il desiderio di pace, è implacabile. Nel senso che non ci dà pace finché non produce qualche conseguenza all’esterno: offrendo ai nostri comportamenti, alle nostre vite quotidiane, una nuova dimensione di amorevolezza. La freccia del desiderio vola continuamente, senza che si sappia bene se vola verso la pace amorevole o vola in quanto scoccata dal desiderio di questa pace; e forse è lo stesso percorso, dentro una circolarità virtuosa.

San Juan de la Cruz

Tendiamo a vivere – e in particolare, abbiamo vissuto questi ultimi anni – in una linearità che si potrebbe quasi dire bellicosa: incenerendo il presente come passato nel momento stesso (Sant’Agostino diceva già qualcosa di simile) in cui lo bruciamo come futuro. Eppure è possibile coltivare una visione diversa del mondo. La linearità affannosa può essere modificata da un atteggiamento più contemplativo, e poco importa se vogliamo chiamarlo “mistico” oppure no: un atteggiamento che può condurci verso la calma. “L’importanza del tempo è pratica piuttosto che teorica” (scrive Bertrand Russell in quel saggio), “è in rapporto con i nostri sentimenti piuttosto che in rapporto con la verità […] Sia nel campo del pensiero sia in quello del sentimento, pur essendo il tempo qualcosa di reale, rendersi conto della non importanza del tempo è la porta verso la saggezza”.

La strada che porta alla saggezza

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