Archivi del mese: giugno 2014

La Bellezza ti a(r)ma. Per un’estetica anti-nichilista

Ospito volentieri la seconda e ultima parte di un saggio di Danilo Breschi, il cui riferimento fondamentale è il pensiero estetico di Stefano Zecchi; e vedo lo scritto di Breschi come contributo a un possibile futuro dibattito.

Per parte mia, mi trovo generalmente in consonanza con queste considerazioni, anche se ribadisco la mia distanza — già altrove espressa — da ogni proposta di una poetica specifica (si tratti di “mitomodernismo” o di altro) a scapito di poetiche differenti; la mia prospettiva è fenomenologica, o descrittiva, piuttosto che prescrittiva.

 

La Bellezza ti a(r)ma. Per un’estetica anti-nichilista 2/2

di Danilo Breschi

La bellezza non è semplice armonia, giusto equilibrio tra gli elementi di un insieme. Questa è semmai la nozione convenzionale che, partendo da Pitagora, Platone ha poi canonizzato con la sua autorità, marchiando l’idea occidentale di bello almeno fino ai romantici. Questi ultimi hanno poi dissotterrato la lira di Orfeo, di colui che ricevette il dono del canto sublime da Apollo, dio della luce, ma che tale dono pagò col viaggio nel regno delle tenebre e con la perdita di un amore assoluto da poco trovato. Perdita subita due volte e perciò ancora più dolorosa. Orfeo è il simbolo dell’idea eraclitea di bellezza, che Hölderlin recupera nell’Iperione, idea secondo cui l’unità che ha in sé la differenza costituisce il logos del mondo e la sua bellezza. L’armonia sussiste, nascosta e profondissima, ma non ha connotazioni statiche, piuttosto traspare solo agli occhi di chi sa vedere e sentire tra il perenne muoversi e scontrarsi delle cose del mondo. L’importante è non avere anime da straniero, dice Eraclito in uno dei suoi enigmatici frammenti, altrimenti occhi e orecchi saranno “cattivi testimoni” (fr. 107, ediz. Diels-Kranz).

Si tratta di capire allora quale sia l’anima del mondo con la quale accordare le corde delle nostre anime. Ce lo dice o, meglio, ce lo accenna la bellezza delle cose e l’esperienza che ne facciamo. La bellezza non ha sguardi neutrali e può folgorare chi la sorprende tra le pieghe del quotidiano. Generando stupore, persino terrore, essa letteralmente provoca, cioè chiama a sé l’uomo e lo pone di fronte a ciò di cui entrambi sono forma vivente, ossia la verità. Verità che la bellezza non svela nella sua completa nudità, che non sarebbe nemmeno sostenibile da occhio umano, ma la lascia trasparire. L’uomo senso del suo esistere, e potrà farlo perché scosso da qualcosa che gli perturba i sensi. John Keats, altro grande poeta romantico, stabilì la seguente equazione: “La bellezza è verità, la verità bellezza” (Beauty is truth, truth Beauty; e prosegue nella sua “Ode su un’urna greca”: “that is allYe know on earth, and all ye need to know).

Gaetano Gandolfi, "Venus in the Forge of Vulcan" (c. 1770-75)

Gaetano Gandolfi, “Venus in the Forge of Vulcan” (c. 1770-75)

Non si tratta però di una identità, ma piuttosto di un rapporto di immanenza reciproca analogo a quello tra anima e corpo. L’anima è il principio generatore che riunisce e organizza le parti di un organismo, dando loro l’impulso vitale, ma il corpo è ciò che dà colore e calore alle vesti diafane e gelide della verità. La bellezza consente all’uomo di approssimarsi alla soglia del vero. Meraviglia e terrore sono gli attributi del bello (che, per Keats, coabita con la gioia e la melanconia) e rappresentano pure la scaturigine della filosofia, intesa nel senso etimologico di amore della sapienza, della verità. Amore, il dio greco Eros, non va però inteso nei termini in cui ce lo ha descritto Platone nel Simposio. Non di Poros (Espediente) e Penia (Miseria) egli è figlio, bensì di Afrodite e di Ermes, secondo quanto ci narra un mito arcaico. Così la condizione di colui che ama non è quella di chi anela alla pienezza e, in cambio, vive la propria lacerazione perché pensa come vero ciò che è solo astrazione, ovvero che la stasi sia il fine (telos, τέλος) della vita. La vita è, al contrario, metamorfosi dell’identico, variazione infinita di un motivo destinato a restare parzialmente ignoto, quasi fosse un mistero sonoro che non respinge ma accoglie.

L’indagine circa le origini di Eros, svelandoci la filiazione diretta dalla Bellezza e dall’Azione, ci dice pure che la verità offrirà lembi delle sue vesti solo agli ignudi che lotteranno perché il bello trovi nuova dimora intramondana e lo evocheranno con canti guerrieri. Questo è l’auspicio di Zecchi, la cui estetica militante si costruisce lungo un asse ideale che congiunge Goethe, Wagner, Baudelaire e D’Annunzio. Estetizzare il mondo: questa è la parola d’ordine mitomodernista, rischiosa da pronunciare nell’epoca in cui trionfa l’estetismo a buon mercato che fa rima con decorativismo. Declinare il rapporto con il mondo in termini estetici vuol dire invece fondare un’etica della nuova alleanza tra forma e significato, tra parola e azione.

La bellezza, fascinosa e traente, ha il potere di spingere l’uomo all’estroversione, di mettere in contatto la sua interiorità con l’esteriorità, dunque con il mondo. Nasce così il dialogo, la relazione feconda e costruttiva in cui l’io incontra il tu e si scopre, acquista un’identità. Identità e differenza istituiscono il mondo delle relazioni, consentono lo svolgimento della vita organica e, nella loro perenne tensione reciproca, conferiscono bellezza alle cose. Ciò che si oppone al dialogo e alla bellezza è l’omologazione planetaria, alimentata dal riduzionismo insito nel pensiero economicista e tecnocratico (per cui utile e funzionale sono i criteri discriminanti). Non a caso, l’omologazione annulla le differenze e sostituisce le identità con i ruoli sociali, forgiando personalità convenzionali.

Dunque amore, bellezza e azione si implicano a vicenda, producendo atteggiamenti di nobile resistenza a ogni livellamento e asservimento politico e ideologico. Come ha scritto Ernst Jünger, un goethiano del Novecento, “quando due persone si amano sottraggono terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla”. L’arte è l’altra attività privilegiata (perché anch’essa donata più che voluta) capace di reintrodurre la dea scacciata, a patto che abbia il coraggio di pronunciarne nuovamente il nome. L’attività artistica assume pertanto una responsabilità politica, si arroga il diritto di dire quale tipo di mondo vuole abitare, con quali regole e con quali principi.

Teorizzando e praticando in un sol colpo la ricerca e la produzione del vero nel bello, il soggettivismo, “causa principale della malattia spirituale del nostro tempo: il nichilismo”, risulta di conseguenza aggredito nei suoi presupposti ontologici ed etici. Richiamando la prospettiva teologica di Hans Urs von Balthasar, Zecchi sottolinea le possibili alleanze tra il bello e il sacro. Secondo il teologo svizzero, infatti, Dio si rivela secondo modalità che hanno gli stessi caratteri del modo di darsi della bellezza. Questa si contraddistingue per la sua autoevidenza, si impone risplendendo di luce propria, e poi non ha scopo né interesse ma si dispiega sotto il segno della gratuità. Come il mondo delle cose si manifesta nel lumen che “irrompe dal suo intimo”, così Dio si autocomunica al mondo nella “gloria” del Cristo, forma e sostanza inscindibili l’una dall’altra.

Teologia ed estetica, fede e arte hanno la possibilità di essere declinate nello stesso modo, conclude Zecchi, basta unirle nel nome dell’amore. Non si tratta di fare arte cristiana né di adottare precetti evangelici fondati sull’amore universale, ma piuttosto di sacralizzare l’esperienza intramondana, riscoprendolo l’eros figlio della bellezza e della poesia (poiesis come peculiare forma di azione). L’eros, fedele all’esigenza formale e consapevole del legame con l’altrove che l’arte mitico-simbolica istituisce (perché, altrimenti, avremo un Marcuse con la sua utopia di convivenza “erotico-estetica”), “è una forza eversiva, non si adegua alla pianificazione dell’esistenza prodotta dalla tecnica” e con la creatività artistica condivide un “sentimento di libertà e imprevedibilità”. Come a dire che una vita ritmata dall’amore può sintonizzare mente e corpo sulle frequenze metamorfiche della vita del mondo.

Almeno due sono, però, i problemi che un’educazione estetica mitomodernista deve fronteggiare se vuole dare sostanza alla propria sfida antinichilista. Sono problemi strettamente connessi tra loro. Occorre infatti rieducare le persone ad un pieno uso dei sensi, evidenziandone il valore di ineguagliabile strumento conoscitivo. Siamo nell’epoca della “realtà virtuale” e della mediazione telematica, e certe trasformazioni tecnologiche non lasceranno indenne la sensibilità umana, quanto mai esposta al rischio di anestesia collettiva. Occorrerà inoltre non appiattire l’uso dei sensi né introvertirli, ossia piegarli e ridurli ad una fonte di eccitazione e/o soffocamento interiore, un modo insomma per spegnere ogni scintilla di domanda e anelito fondativo nell’individuo. Estetica, non estetismo. Dunque i sensi come viatico, veicolo a qualcosa di stabile e imperituro che non si sa dire con linguaggio descrittivo, ma si percepisce così forte da rendere urgente il bisogno di evocarlo, almeno, e dunque di dirlo poeticamente.

Al tempo stesso, l’opera di riattivazione di una sana e intensa percezione dell’ambiente circostante dovrà avvalersi di una parallela opera di riforma dello stesso ambiente, sempre più soffocato da cemento, smog e progettazioni urbanistiche brutte, opprimenti e nemmeno funzionali. Il compito è tutt’altro che facile, ha molto del sogno rivoluzionario ma non per questo deve essere abbandonato. Se anche l’interlocutore ideale di Zecchi è una cerchia, necessariamente ristretta, di artisti e filosofi, è chiaro come la battaglia sia da condursi prevalentemente sul fronte della comunicazione e della formazione, dunque sul piano politico-culturale o, se vogliamo, metapolitico.

(2/2. Fine)

 

 

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SVANGANDO

            Poco passato l’angolo
di Riverside Drive con Piazza Tiananmen
gli cade sotto gli occhi una fossa quadrata
fresca fresca ancora non finita
(due comunali
in bluse biancorosse ci lavorano,
con una guardia che sorveglia il traffico),
e passandovi accanto si chiede:
‘E come fa un cadavere
che non sia di bimbetto o adulto accovacciato
in posizione fetale
a trovar luogo lì dentro?’

Ma continuando a camminare si rende conto che si è posto la questione sbagliata — la sua povera mamma gli avrebbe detto: “Hai perso una buona occasione di star zitto” e avrebbe aggiunto che la prima domanda da farsi era: ‘Cosa ci sta a fare una tomba in mezzo a un marciapiede?’ — e infatti e naturalmente (come lui ricostruisce nella sua mente ma solo quando è già arrivato in fondo alla strada) non si trattava affatto di una tomba come del resto lui aveva intuito ma non aveva avuto il tempo di dirselo  quando la coda del suo occhio gli aveva mostrato l’alberello col piede insaccato in un fagotto di tela e terra che uno degli addetti reggeva in braccio come un canguro — ma adesso se lo dice se lo ripete: ‘Non stanno scavando una tomba hai capito? Stanno piantando hai capito? un piccolo albero’ e mentre imbocca il vialetto che porta al palazzaccio di ventisei piani dove lui abita cede alla tentazione della simmetria la tentazione allegorica che pèrpetra e perpetua il rischio di illudersi sulla congruenza fra linguaggio e realtà: ‘Dove si sarebbe potuto abissare il luogo della corruzione finale ecco che là invece si radica il seme della vita’ — ma la mattina dopo nella sobrietà del risveglio comprende che questo conceit non riflette veramente quello a cui aveva continuato a pensare anche nelle fenditure biancastre della notte — quando gli era apparso chiaro come non importasse poi molto che nello scavo squadrato

piantassero un albero o una tomba.
Lo scavo, era quello che contava
dentro/sotto il terriccio del dolore —
era lo scavo e basta:
il fangoso
lavoro memorioso
necessario a estrarre i ricordi
al di sotto (dunque al di sopra)
del soggetto, al di là
del piacere della memoria.
I ricordi che rammemorano ammoniscono
su ciò che si dovrebbe avere fatto
per fare quello che bisogna fare.

 

Riverside Drive
Manhattan                                                       31/4/14 -3/5/14

 

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Il Rubino di Paolo Valesio I parte

Ricupero il testo della prima parte di un’intervista in due parti con la poeta Veronica Tinnirello, conduttrice della rubrica di interviste a poeti “Il Rubino” trasmessa da Radio Città del Capo di Bologna.
Paolo Valesio

Paolo Valesio

Poeta, narratore e critico, Paolo Valesio nasce a Bologna dove si laurea. Ottenuta in seguito la libera docenza, Valesio si trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna a Harvard, New York University, Yale e attualmente alla Columbia University nella città di New York, dove è titolare della Cattedra “Giuseppe Ungaretti” in Letteratura Italiana. Dirige la rivista Italian Poetry Review e collabora a riviste e giornali italiani. Oltre a numerosissimi saggi, articoli, racconti e poesie sparse, ha pubblicato diciassette libri di poesia, due romanzi, una raccolta di racconti, e cinque libri di critica. Per tutti i dettagli sulla sua ricca bibliografia vistate il sito paolovalesio.wordpress.com

http://www.ilrubino.it/il-rubino-di-paolo-valesio-i-parte/

 

 

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Il Rubino di Paolo Valesio II parte

Accludo il testo di un’intervista in due parti con la poeta Veronica Tinnirello, conduttrice della rubrica di interviste a poeti “Il Rubino” trasmessa da Radio Città del Capo di Bologna.
Paolo Valesio

Paolo Valesio

Poeta, narratore e critico, Paolo Valesio nasce a Bologna dove si laurea. Ottenuta in seguito la libera docenza, Valesio si trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna a Harvard, New York University, Yale e attualmente alla Columbia University nella città di New York, dove è titolare della Cattedra “Giuseppe Ungaretti” in Letteratura Italiana. Dirige la rivista Italian Poetry Review e collabora a riviste e giornali italiani. Oltre a numerosissimi saggi, articoli, racconti e poesie sparse, ha pubblicato diciassette libri di poesia, due romanzi, una raccolta di racconti, e cinque libri di critica. Per tutti i dettagli sulla sua ricca bibliografia vistate il sito paolovalesio.wordpress.com

http://www.ilrubino.it/il-rubino-di-paolo-valesio-ii-parte/

 

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Tieni a mente Tienanmen

 Mi piace ospitare questo articolo di Danilo Breschi, che ci ricorda il grande tema della libertà.

Tieni a mente Tienanmen

Venticinque anni fa sbocciò una vera, autentica “Primavera democratica”, più popolare e avanzata nelle sue richieste rispetto a molte che si sono consumate nell’Africa mediterranea di tre anni fa. Accadde in Cina, sotto il regime a partito unico della Repubblica Popolare Cinese. Iniziate il 15 aprile del 1989, le dimostrazioni popolari di protesta guidate da giovani studenti e operai a Pechino proseguirono per quasi sette settimane. Il 4 maggio 1989 (data simbolica poiché richiamava il movimento studentesco nazionalista e antimperialista del 4 maggio 1919, che invocava “Mr. Democracy” e “Mr. Science”) circa 100mila persone marciarono per le strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo tra le autorità del Partito comunista e una rappresentanza eletta dagli studenti.

Già da un paio d’anni erano emerse richieste crescenti a favore di alcune riforme di modernizzazione economica, e anche qualcosa di più. Nell’estate del 1986 il professore Fang Lizhi, noto astrofisico, di rientro da Princeton aveva girato in molte università cinesi, predicando libertà, diritti umani e separazione dei poteri. Diventò assai popolare tra gli studenti, tanto che seguirono alcune manifestazioni di protesta ben presto bloccate. In quelle settimane di primavera del 1989 si fecero ancora più dilaganti e pressanti le rivendicazioni perché si introducesse trasparenza nella gigantesca e tentacolare burocrazia del regime, perché venissero garantite le libertà di parola e pensiero, di stampa, associazione e riunione. Il 13 maggio circa duemila studenti decisero di insediarsi in piazza Tienanmen e le loro richieste si radicalizzarono ulteriormente, arrivando ad accusare di corruzione il Partito comunista cinese e il tentativo di ritornare al conservatorismo del vecchio Deng Xiaoping, ancora uomo forte del regime in quanto presidente della Commissione militare centrale. Gli studenti chiedevano a gran voce che quanto stava accadendo in quei mesi fuori dalla Cina, e in particolare in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est, potesse favorire anche in patria l’attuazione di riforme in senso democratico.

Confrontazione Tienanmen

Scontro Tienanmen

I manifestanti radunati a piazza Tienanmen eressero anche un’enorme statua, alta 10 metri, chiamata “Dea della Democrazia”, che gli studenti dell’Accademica Centrale delle Belle Arti avevano costruito in polistirolo e cartapesta sopra un’armatura metallica. Il 20 maggio il vertice del Partito comunista optò per la proclamazione della legge marziale, richiamando sulla capitale circa 300mila soldati. All’inizio l’esercito incontrò una forte resistenza da parte della popolazione manifestante nella capitale e si astenne dal reagire con la forza, cosicché la situazione restò paralizzata per 12 giorni. Pare sia stato Deng Xiaoping a premere sui vertici del Partito perché si decidesse per l’uso della forza.

La notte del 3 giugno l’esercito iniziò quindi a muoversi dalla periferia verso Piazza Tienanmen. Di fronte alla resistenza che incontrarono, aprirono il fuoco e arrivarono in piazza. Nonostante non sia possibile una ricostruzione dettagliata dei fatti, poiché la censura del regime entrò subito all’opera, fu senz’altro un massacro. Nella notte fra il 3 e il 4 giugno si consumò quello che alla storia è passato come “massacro di piazza Tienanmen”, anche se è probabile che le maggiori uccisioni di civili inermi avvennero in altre zone della città. Alle 5:40 del mattino del 4 giugno la piazza era stata sgomberata.

Il giorno dopo, 5 giugno, un ultimo sussulto di questi giovani uomini e donne piene di fierezza e speranza. Ed ecco che tra questi, e tra i parenti dei manifestanti uccisi o feriti, accorsi all’alba nella piazza e nelle sue adiacenze, si staglia la scena che segnò la fine del XX secolo, e che segnò, sì, uno scacco per la democrazia, ma non completo, non definitivo, perché quella scena divenne un simbolo, e “le grandi immagini parlano sempre” e per l’avvenire. Il simbolo della libertà fu stavolta incarnato da quel giovane rivoltoso e pacifico che sfidò i carri armati, in fila lungo la grande avenue di Chang’an, ponendosi loro di fronte, armato solo della sua tenace umanità e di una disperata speranza in un nuovo inizio. Quel che nell’Europa dell’Est si concluse con il crollo delle dittature a partito unico satellitari dell’Unione Sovietica (che sarebbe a sua volta implosa nel biennio successivo) non avvenne nell’Estremo Oriente. Da allora, è stata rimossa e cancellata ogni traccia di ciò che accadde in quelle settimane di primavera a Pechino e dintorni, e a piazza Tienanmen, e quanto avvenne poi nei giorni che seguirono.

Il bilancio di quella ventata di libertà: centinaia, migliaia – secondo molti osservatori e organizzazioni internazionali (tra cui Croce Rossa e Amnesty International) – tra donne e uomini, giovani e meno giovani, furono uccisi, molti altri ancora imprigionati, torturati, fatti scomparire per sempre. Una coltre di silenzio, censura e, ancor peggio, disinformazione (se ne hanno prove navigando oggi in Rete) è stata sapientemente incollata sopra a quel che accadde, perché niente si ricordi.

Nel nostro piccolo, noi, che in quelle settimane ci apprestavamo all’esame di maturità liceale, teniamo bene a mente Tienanmen, cosa accadde in quella piazza e in molte altre città della Cina nel corso della primavera di venticinque anni fa, in quella timida ma decisa alba cinese, eclissata da un regime che, ancora oggi, molti dissidenti ed esuli, così come i tibetani, sanno bene quanto sia totalitario. A dimostrazione che né nel 1945 né nel 1989 il totalitarismo ha cessato di essere un regime del tempo presente, perché attuale ancora è, purtroppo, solo che non lo si nomina come tale. A dimostrazione che non è esattamente vero che numina sunt consequentia rerum, soprattutto quando le cose, le realtà storiche e politiche vengono manipolate. Se ne ha paura, non sta bene dire certe cose in certi ambienti, anche occidentali.

Qui sotto le richieste contenute nel manifesto degli studenti cinesi, protagonisti di una rivolta pacifica, ispirata alla gandhiana non-violenza, con sit-in di massa e sciopero della fame. Martiri della libertà. Libertà: una parola per indicare un ideale e una pratica che sempre richiedono coraggio e speranza nel futuro.

E così si cantava in Italia tra fine anni ’80 e primi anni ’90, ricordando la Primavera democratica cinese, “con il cuore in quella Piazza”.

Per una cronologia degli eventi clicca su questo sito della BBC News (con video dell’epoca).

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