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Aspettando che Jason si spieghi


Riporto qui, con il suo titolo originario, un articolo apparso sul quotidiano online ilsussidiario.net del 22 febbraio 2016 (http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2016/2/22/STRAGE-IN-MICHIGAN-Perche-un-Mr-Dalton-qualsiasi-inizia-a-sparare-contro-tutti-/681592/)

Aspettando che Jason si spieghi

Cracker barrel (letteralmente: ‘bariletto dei biscotti’) è un’espressione usata metaforicamente nell’inglese americano come attributo di un certo stile di socializzazione, tipica di quella che può (poteva) aver luogo in conversazioni informali tra vicini, dentro certi negozietti di campagna; ma nell’uso aggettivale può anche essere un epiteto razzialmente offensivo usato per designare i poveri di razza bianca. Insomma è un bell’esempio (ovvero un brutto esempio) di quei casi – classicamente analizzati da Freud – di una stessa parola che possiede due significati opposti, uno positivo e uno negativo. Questa espressione, nel suo senso buono, è poi diventata il titolo di una catena di “ristoranti” – in realtà, trattorie molto alla buona e molto impersonali : i “Cracker Barrel Restaurants”, tutti standardizzati (“Più di 630 in lungo e in largo per gli Usa!”, “Ce n’è uno all’uscita di ogni autostrada!”, proclama la loro pubblicità), che riflettono la nostalgia per una bonaria società rurale la quale è ormai solo un ricordo del passato (e che da noi sarebbe oggetto di qualche divagazione nostalgica in stile pasoliniano).

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Cracker Barrel Restaurant: Ce n’è uno all’uscita di ogni autostrada!

Che cosa ha a che fare tutto ciò con il caso di quel Jason Dalton che sembra aver ucciso a casaccio una mezza dozzina di persone a Kalamazoo nello stato del Michigan? Ecco, io ho tentato di descrivere invece di prescrivere; di evitare cioè le reazioni, peraltro sacrosante, che appaiono ormai come dei copia-e-incolla applicati a questi massacri-copia-e-incolla: banalità del male, circolazione impazzita delle armi da fuoco, attentati terroristici ecc. (A proposito: “terrorismo”dovrebbe essere aggiunto a quella lista di parole, positive e negative – come “democrazia” – delle quali George Orwell già alla metà del secolo scorso denunciava un certo svuotamento di significato.) Non potendo spiegare l’atto di violenza nel Michigan, e tentando di evitare le pseudo-spiegazioni, mi sono limitato a un tentativo di rappresentazione mentale dello sfondo in cui è avvenuto il massacro: tra un ennesimo “Cracker Barrel Restaurant” e un’ennesima rivendita di automobili, nell’ennesima area metropolitana (circa 300.000 abitanti) che si è vistosamente allargata intorno all’ennesima piccola città americana (Kalamazoo sembra toccare a stento i 75.000 cittadini).

Una volta c’erano gli sfondi visivi di Edward Hopper e gli sfondi psicologici dei racconti di Sherwood Anderson e dei drammi di Thornton Wilder – bei ricordi da musei e biblioteche che descrivono un’America semi-rustica e paesaggi urbani dotati di una loro bellezza, tra l’idillico e il dignitosamente triste; adesso, pare che in tutto questo panorama predomini l’impersonalità, la ripetitività, il rassegnato squallore. Qualunque si riveli, o non si riveli, essere il senso del massacro compiuto da Jason, parte del suo senso/nonsenso è che questa tragedia si sia consumata tra il grigiore di una tavola calda in serie e il grigiore di una rivendita di automobili – insomma in una piattezza che può spegnere lo spirito di chi in essa vive, rischiando di farlo morire prima del suo tempo. Ed è ironicamente significativo che nelle fotografie finora disponibili Jason Dalton appaia (dico “appaia” perché sono consapevole del pericolo di certe generalizzazioni che potrebbero avere un sapore razzista) come proprio il tipo di quei bianchi poveri cui la titolazione di quei ristoranti involontariamente allude.

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American Idyll

Che cosa si guadagna e che cosa si perde, guardando al massacro di Kalamazoo in questa prospettiva, osiamo dire, antropologica? Il guadagno consiste (come si diceva) nel tentativo di ancorare il fenomeno alla sua concretezza, al dilà delle deprecazioni generiche. Ma ciò che si perde se ci fermiamo a questa fenomenologia è il senso dell’unicità di Jason Dalton come persona – quell’unicità che coincide con la dignità umana. Viviamo – ce l’hanno già detto in molti – nel tempo del collettivismo individualistico, ovvero di quell’ “ognuno per sé” che si pone come il surrogato del senso autentico della singolarità di ogni persona umana: singolarità non egocentrica perché la sua base è, in ultima analisi, spirituale.

In questo momento, la scheda del Signor Dalton (“Mr. Dalton”, dicono – con quel rispetto delle forme che è pur sempre una forma di rispetto – i giornali americani) sta girando fra le varie banche dati che servono a costruire il “profilo ideale” di un certo tipo di omicida; e questo, naturalmente ha la sua utilità statisticamente conoscitiva. Ma questo massacro ha pur sempre un autore, e questo autore è fondamentalmente incomparabile a chiunque lo ha preceduto e chiunque (purtroppo) lo seguirà. Quanti, fra coloro che si soffermano sui mali (innegabili) dell’omologazione, sono poi disposti a seguire fino in fondo le conseguenze di un’insistenza su (e un’esplorazione di) ciò che accade quando qualcuno decide di essere veramente individuo; dunque, oltre un certo punto, ‘non divisibile’, non veramente condivisibile, non conoscibile, non prevedibile? Nell’individuo risiede la bellezza – ma risiede anche la possibilità dell’orrore.

È magra consolazione, pensare ai vari scrittori che quasi certamente in questo momento stanno gareggiando nel presentare ad agenti ed editori qualche progetto (libro-inchiesta, docu-dramma, creative non-fiction e simili) sul Signor Dalton e altri individui come lui. “Magra” perché non è d’aiuto né all’assassino né alle sue vittime. Eppure vi è in ogni scrittura più o meno letteraria una forma di “consolazione” – mentale prima di tutto, ma anche emotiva. Si tratta di un’esigenza conoscitiva che, almeno da Aristotele in poi, è stata riconosciuta come componente essenziale della natura umana. A proposito di conoscenza della situazione nella sua effettiva complessità: se il nome della cittadina suona un po’ buffo non solo a orecchie italiane ma anche ad orecchie americane (pare che i suoi abitanti non si rifiutino di scherzare sul fatto che Kalamazoo rimi con zoo, nella pronuncia inglese – così come del resto in quella italiana), non bisogna dimenticare che ogni luogo in America è più ricco e interessante del suo cliché. Kalamazoo è sede di un’università (da non confondersi comunque con la più prestigiosa University of Michigan ad Ann Arbor) e di due colleges; e ogni anno accoglie uno dei più importanti convegni di medievistica negli Stati Uniti. Vari elementi coesistono, dunque, e feconde contraddizioni.

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Jason Dalton e il paesaggio di Kalamazoo 

Tornando alla scrittura: che tipo di conoscenza essa può offrire se – da Truman Capote a Norman Mailer e via dicendo, con i vari re-inventori di Dostoevskij – al rilevamento dei fatti criminali si mescola inevitabilmente una certa quantità di invenzione? La risposta è che si tratta di un tipo di conoscenza peculiare ma non indegna di questo nome; essa risponde a un’esigenza che non è soltanto retorica, ma anche etica: l’esigenza di enunciare ipotesi che soccorrano all’indispensabile lavoro della mente – per non replicare al nichilismo dell’azione con il nichilismo della ragione descrittiva.

È probabile che Jason, come tanti altri, cercherà di difendersi con frasi del tipo: ”Non so che cosa mi abbia preso”. Ma il fatto è che lui e gli altri sanno, che cosa gli ha preso; e ciò è detto non per appesantire su di essi la mano della giustizia, ma quasi al contrario: se gli assassini riuscissero a trovare le parole per esprimere anche una piccola parte di quello che comunque resterà un segreto tra loro e Dio – se riuscissero a trovare qualche parola (non dettata da altri) a questo proposito – ciò segnerebbe forse un inizio di riscatto, perché costituirebbe in qualche modo un approfondimento della loro umanità.

 

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Recollectedness e altre poesie

 

   Anticipo qui le mie poesie che appariranno sul prossimo numero di «Italian Poetry Review» (IPR) nel Dossier dedicato alla memoria di Luciano Rebay: illustre studioso, mio predecessore nella cattedra Giuseppe Ungaretti (che egli fondò), grande amante  e conoscitore di poesia. Questi miei testi non contengono alcun riferimento alla vita e all’opera  di Luciano, e non so essi corrispondano o no alla sua idea di poetica. Sono semplicemente un modesto omaggio a un uomo complesso di cui ho amato la passione poetica,  e la conversazione.

 

Recollectedness

 

La sua essenza è la preghiera
è come una candela

 

o come un cero a uso di bambolotto di cera di quelli che un tempo si trovavano sotto una campana di vetro o dietro la facciatina trasparente come un piccolissimo teatro sotto il ripiano di un altare ma di un altare ovviamente non est dignus e la campana di vetro del salotto di genealogia umbra purtroppo se l’è lasciata alle spalle la sua dimora come quella di ogni cosmopolita si è ristretta mentre sembrava globalmente ampliarsi adesso la sua casa è lo spazio fra il mento e il petto quando si ripiega su sé stesso e questo stesso ripiegarsi è l’inizio della preghiera che fino ad ora vedeva soprattutto come una questione di ritagli di tempo che dovevano allargarsi sempre più fino a comprendere buona parte della giornata ma adesso sente che è essenzialmente una questione di spazio preliminarmente pensa si tratti dello spazio fra il mento e il petto dove lui trova chi realmente è.

Riverside Drive
(Manhattan)

 

 

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Ineludibilità della poetica

Il poeta è a disagio col suo tempo,
come il profeta.
Ma il profeta che è tale fino all’osso
punta il volto e gli occhi al futuro;
mentre invece il disagio degli amanti
si esprime profetando il passato.
Il poeta frattanto nel suo angolo
profetizza il presente:

lo descrive in tempo reale ma in termini che gli altri non riconoscono – mentre gli scriventi per la maggior parte parlano in termini riconoscibili esortano alle virtù civiche deplorano i flagelli sociali si prestano a citazioni citabili intervengono manifestano giornalisteggiano si intervistano da soli si impaludano nella palude politica e nei paludamenti morali il poeta invece ha capito che ciò che è ineffabile è spesso anche infame per i più e offre come testimone al limite il collo al sospetto/mannaia dell’infamia

come la santa martire distesa
avvolta in elegante veste blu

nel quadro che dipinge sulla faccia dell’altare in fondo alla cappella un’immagine che non si capisce a che secolo appartenga e la perplessità è aumentata dal vederla così controluce quella veste sembra un vestito da sera quel blu è pesante di seta e broccato la testolina quasi completamente avvolta da una sciarpa a righe colorate fiorisce

 

su un lungo delicato collo cìgneo
e nìveo su cui spicca
un breve taglio rosso
che pare una ferita suicidaria.

 

Oratorio di Santa Cecilia
Bologna

 

 

* * *

 

 

Metro-epifania

 

“Difficile est in turba
Christum videre”,
dice sant’Agostino citato da Petrarca,
ma lui si consente di dubitarne.
La sua emozione (chi ha parlato
di “rational exuberance”?)
si espande a lui dentro a lui fuori
come una rosea bolla:
si trova nel suo centro

 

quando alle ore 23 circa càpita nella stazione della metro sotto la Quarantaduesima Strada dove è arrivato a piedi dalla Quattordicesima e dove sta cercando la coincidenza giusta per la Centoventicinquesima e si trova per alcuni minuti lunghi in uno stato di completo disorientamento in mezzo al frastuono selvaggio di quella che non vogliono più chiamare plebe ma che lo è lo è – e lui se ne appella mentalmente ai poliziotti – che i cuoricini sanguinanti di progressismo nei sobborghi disprezzano e che lui ammira – i poliziotti che tengono d’occhio i giovinastri e meno giovinastri che scorribandano e le famigliole che si sentono moralmente autorizzate a ululare e si trascinano dietro bimbi che a quest’ora dovrebbero stare nel lettino e invece si aggirano drogati dal son et lumière della povertà mediatizzata nelle budella della città e il calore è quello di una foresta tropicale e nel mezzo di questa incertezza sulla linea della metropolitana da prendere e di questo disagio soffocante di caldo chiasso luci ritaglianti e taglienti lui si sente veramente nel bel mezzo nel mezzo bello si sente raccolto nel suo centro sente la calorosità dell’amore per questa plebe-non-più-plebe questa plebe di cui lui stesso fa orgogliosamente parte – è un amore vagante non focalizzato dunque tanto più bruciante – momento estatico dentro l’infernetto dell’esperienza

 

diaria – la momentanea estasi
è esorcismo contro il peligro
dell’inferno annidato
da qualche parte nel vasto
e nel profondo

Fra Manhattan e North Branford

 

Sol-LeWitt-grab 

 

 

Io Ti vorrei amare”*

 

Il pensiero assisiate è ritornato
ma questa volta senza “T” maiuscola:
l’ottativo non è più tutto-eroico
(tanto più eroico quanto più fallente),
non più tutto accentrato
sull’amore di Dio. Sì perché
ogni dichiarazione d’amore
(umana sia, o divina)
è ottativa, è una sfrontata iperbole –
ogni dichiarazione
d’amore è sproporzionata:
troppo più grande del suo oggetto
(umano o animale
floreale o minerale) –
ogni dichiarazione d’amore è più forte
delle energie effettive del soggetto –
ogni dichiarazione d’amore
è un’ inmantenibile e indomandata promessa:
la sua esagerazione intrinseca
sfiora l’osceno.
Ma senza questo
rischio d’oscenità
uno vive al di sotto della vita:

 

ecco la vera radice dell’erotico che si annida sotto e dentro ogni atto ma non solo: dentro ogni intenzione dentro ogni pensiero — al di sopra al di sotto al di là al di qua di ogni contatto carnale — l’oscenità è nella disproporzione — pur sempre preferibile alla sottovita — l’ottativo dunque è indispensabile perché ogni tale dichiarazione è conativa e sa di esserlo (altrimenti mente ma questa menzogna è così grossolana che solo la mediocrità può enunziarla e per esempio Don Giovanni non è un banale mentitore è un iperbolista) — vero è che si può non amare (atto di libertà che respinge il ricatto sentimentale ripetitivo dei provenzal-danteschi) ma questo atto di libertà è anche gesto di povertà e aridità — dunque se non si deve amare è però possibile dire che si può amare? Sì e no: l’amore essendo una promessa impossibile al massimo si può dire (ecco perché il condizionale di Francesco è sempre attuale nella sua ottatività) che si vorrebbe amare si desidera amare si ha una matta voglia di amare si amerebbe se solo si potesse — e forse queste umide intenzioni troveranno la ricompensa di una compassione.

 

[*La frase è apocrifamente attribuita a san Francesco d’Assisi]

Riverside Drive
Manhattan

 

 

Riverside_Park_Historic

 

 

Sine titulo

 

A prima udita sembra
(ma dopo un minuto
si ricorda che l’ha spenta)
una voce di cantante
affievolita dalla radio bassa.
Allora pensa siano due vicini
che passeggiano
chiacchierando lungo il vialetto
(ma subito ricorda che i vicini
non passeggiano mai chiacchierando
di fronte alle case:
in questo lungo viale
sono tutti rifugiati dalla vita,
contemplativi-attivi ma ognuno nella sua sfera,
dunque rifuggenti dalle socializzazioni superflue) –
e finalmente capisce:
è il vento
che si avventa dal lato del lago
che si ingorga fra gli alberi
dunque geme e stride
una volta l’amava –
come spirito libero
in libera natura –
mentre adesso lo teme:
gli sembra omicidiale.

 

Laghetto di Linsley

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