Archivi del mese: febbraio 2014

A scuola dai Diversi di Massimo Sannelli

Io non ho ancora capito se questo “trentinolibero.it” mi vada a genio oppure no; anzi, spesso e volentieri mi va a contraggenio. Ma, poi, che importa? A volte, “trentinolibero.it” fa pensare all’orgogliosa dichiarazione di Foscolo: “Ohibò / pensar li fo” — dunque, ogni tanto  mi permetto di inserirlo. Con i saluti di PV.

A scuola dai Diversi
SABATO 22 FEBBRAIO 2014 13:57
MASSIMO SANNELLI

Questo è bello: la scuola parla di Federico II, Dante, Caterina da Siena, Leonardo, Tasso, Leopardi, Manzoni, Pascoli, D’Annunzio, e fa bene. Naturalmente si tratta di valori, è chiaro. Il più normale dei valori scolastici è Montale, diciamo: ma anche Montale credeva che Irma Brandeis portasse Cristo in terra; lo credeva e ha pubblicato per farlo credere, o almeno per farsi accreditare.

I professori inquadrati parlano per “quarant’anni di onesta professione”: parlano degli Asociali, dei Visionari, dei Nevrotici e degli Psicotici, che meraviglia. E non lo sanno o non lo dicono del tutto. Poi appare uno come Carlo Dossi e toglie il velo a Tommaseo: tutto è in tutto, tutto sommato.

Dentro (e fuori) la scuola, bisogna insistere sull’eccitazione e sull’eccezione. L’eccitazione continua, come l’eccezione. Come l’asocialità, che continua, insieme all’eccezione. L’asocialità non è il contrario dell’eccitazione e dell’eccezione. Anzi le aumenta e le definisce meglio; e le rende enormi, senza limiti. D’altronde si tratta della Cultura.

Asociale

Asociale

Scelsi e De Dominicis hanno creduto all’immortalità; Sun Ra veniva da Saturno; Florenskij credeva alla magia della parola e Bob Marley al Negus-Leone di Giuda; Dino Campana era“l’ultimo Germano in Italia”, il pittore Gino Grimaldi disse di essere Rubens, ma realmente. Nietzsche è un destino e lo sa. D’altra parte, Pasolini si identifica nel papa Pietro II e Carmelo Bene non esiste. Nella Storia di una malattia Amelia Rosselli scrive che il suo male è “la CIA, il suo corrosivo o punto d’attacco il SID o l’Ufficio Politico o ambedue”. Cristina Campo sente le forze occulte di Roma e cammina sul sangue dei martiri. Sono disimpegnati? Rispetto ai doveri usuali, sì, un po’ tutti. Un po’ paranoici? Anche. Malati e diversi? Anche troppo, anche suicidàli; ma il fatto è questo: prendere o lasciare. La scuola li ha presi tutti, l’editoria pure, il pubblico anche.

Milioni di persone sono convinte – o dicono di esserlo – che la Madonna non sia mai morta: Maria vive anche oggi, nel suo corpo. La fede è fede, si sa. Ma chi non dubita di Maria può anche accettare Scelsi e Sun Ra. In fondo ha la stessa dose di prove, cioè nessuna prova. Quindi è tutto nella fede, con tutte le forze della “disperata vitalità”. Alla fine, non contano l’esistente, l’usuale, il normale; o meglio: contano finché si vuole che contino, visto che la morte può anche NON esistere. Allora conta un’estetica, ma è irrazionale o irregolare. Bene, ce la teniamo così – irrazionale e irregolare – e piace molto: di contraddizione in contraddizione, di respiro in respiro.

I giovani non sanno che la Norma – la Scuola – parla anche dei Diversi o dei Perversi. È la scuola stessa che lo chiede, anche se non lo sa. Per esempio: qualcuno ha detto accademicamente che Dante era un drogato. Perché no? E non solo. Theophil Spoerri (Introduzione alla Divina Commedia, Mursia, Milano 1966, p. 284) cita Boccaccio e Pietro Alighieri: secondo Pietro, suo padre aveva un brutto vizio, la “defloratio virginis puellae”; e anche Boccaccio lo sa: in Dante “trovò amplissimo posto la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi”. Brutto esempio, Dante. E pensare che Paolo VI scrisse: “Dante è nostro”. Voleva dire: mostro? O forse è nostro proprio per questo; nostro e mostro, va bene. Certo, un po’ più di salute non guasterebbe, ma è andata così. Dante è nostro, è mostro, ed è anche della scuola, che insegna i valori, ma non insegna la salute, se non nella forma dell’ipocrisia: cioè del non-detto e dell’adeguamento. È per questo non-detto che l’arte può essere l’Irregolare?

E anche Spoerri, bella roba. Il professore, Theophil, è parente dell’artista, Daniel. Lettore, ti sembra di poter credere alla normalità? Alla cultura, poi, l’insana, la prostituta-santa di Fassbinder. Vivere come Dante e mangiare come Daniel Spoerri: auguri.

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La sindrome di Bologna

“Commovente, da sindrome di Stendhal”: così uno dei primissimi visitatori a Bologna della mostra “La ragazza con l’orecchino di perla: Il mito della Golden Age da Vermeer a Rembrandt (Capolavori del Mauritshuis)” ha commentato la mostra stessa. L’osservazione di quel visitatore era intesa come positiva; eppure la cosiddetta sindrome di Stendhal (che aveva colpito a Firenze il grande romanziere) descrive com’è noto una reazione fisiopsichica negativa, un turbamento che può portare a stati di allucinazione in soggetti particolarmente sensibili esposti a una concentrazione di bellezze artistiche in spazi relativamente ristretti. Ma l’apprezzamento resta azzeccato nella misura in cui esso identifica quello stato di lieve febbrilità che si associa a un fenomeno di culto.

Johannes Vermeer, "La ragazza con l'orecchino di perla" (1665)

Johannes Vermeer, “La ragazza con l’orecchino di perla” (1665)

È innegabile infatti che il piccolo ritratto dipinto da Vermeer intorno al 1665 – una fanciulla volta di tre quarti il cui sguardo insegue dolcemente lo spettatore – sia diventato un oggetto di culto nel corso del suo pellegrinaggio internazionale. L’idea ormai diffusa, di approfittare di lavori di restauro per cedere in prestito opere d’arte che altrimenti sarebbero restate per lungo tempo invisibili, non ha forse mai ottenuto in tempi recenti un successo così impressionante per una singola opera. Anche a New York, la capitale artistica mondiale di solito abbastanza blasée che ha ospitato “La ragazza” nei mesi precedenti la trasferta europea a Bologna, la fila degli spettatori in attesa faceva il giro dell’isolato, intorno al più illustre fra i piccoli musei cittadini, la “Frick Collection”; e perfino il compassato New York Times ha dedicato a quel ritratto un articolo di prima pagina, in cui si descriveva fra l’altro quello che sopra si è definito senza esagerazione un pellegrinaggio, intervistando alcuni appassionati che avevano compiuto ripetuti viaggi internazionali per poter rivisitare quel quadro.

A proposito: non è inutile comparare i due diversi contesti – il newyorchese e il bolognese – in cui il quadro è stato esposto. La “Frick Collection” è solo una delle tappe di quello che a Manhattan si chiama “il miglio del musei”, dunque ogni singola mostra risulta inevitabilmente ridimensionata, in un mare di occasioni artistiche. Inoltre l’esposizione del ritratto, insieme con il gruppetto degli altri dipinti olandesi, nella palazzina protonovecentesca di Henry Frick era impeccabilmente accurata ma non dotata di particolare ispirazione. Tutt’altro è il caso dell’inquadramento bolognese della mostra all’interno di Palazzo Fava, un bellissimo edificio cinquecentesco. Qui la sinergia tra la locale “Fondazione Genus Bononiae” e l’associazione “Linea d’ombra” ha creato un’esposizione in cui la filologia si armonizza con l’eloquenza teatrale; e ciò emerge specialmente nelle visite serali e notturne.

Nelle sale del palazzo, “protette” dagli stupendi affreschi dei Carracci in alto sulle pareti, i quadri emergono dalle pareti scure, ciascuno sotto il fuoco di una luce particolareggiata, così che quando si arriva alla sala in cui il quadro più importante risalta in drammatico isolamento, lo spettatore è preparato ad apprezzare il contrasto tra i colori vivaci del ritratto e il suo sfondo color della notte.

Ho detto “il quadro più importante” − ma è poi esatto ciò? Chi ha decretato questa gerarchia? Sono domande legittime, così come non sono irrilevanti categorie socioculturali come: feticismo, kitsch, icona mitizzata ecc. Qui però ci troviamo di fronte a un mistero che richiede prima di tutto di essere rispettato come tale.

E che non è il mistero del quadro, ma il mistero degli spettatori. In effetti, questo è il meno misterioso dei non molti quadri dipinti da Johannes Vermeer (1632-1675) − a meno che uno non decida di creare un’atmosfera di segretezza affascinante ma alquanto artificiale, congetturando sull’identità e la storia della giovane modella del ritratto (come ha fatto Tracy Chevalier col suo romanzo cui si è accodato un film). Qui c’è quello che c’è: una giovane graziosa (non bellissima) adorna di un turbante esotico che sottolinea un certo aspetto “straniero” del suo volto − si avverte qualcosa come una mescolanza di sangui − dove il biancore degli occhi leggermente protuberanti (un medico positivisticamente indiscreto parlerebbe forse di ipertiroidismo) gioca elegantemente con il bianco della grossa perla assai probabilmente falsa, e dove le labbra semiaperte esprimono il topos del “ritratto parlante” ma parlano soprattutto di una consapevolezza della propria attrattiva e danno il senso di un invito.

Gli spettatori in sosta davanti al quadro tacciono (a New York come a Bologna), o sussurrano (a Bologna come a New York) parole di ammirazione. Dietro a quel silenzio sussurrato lo spettatore degli spettatori percepisce (a New York, a Bologna) un non-detto che sarebbe troppo rozzo tradurre con un “Tutto qui?”, ma che è comunque un discorso di frustrazione. Solo che la frustrazione non è un’insoddisfazione estetica, è il risultato di una sfida spirituale. Questo ritratto del tardo Seicento è l’espressione di un momento di felicità creativa che ferma un istante di desiderio. Ma proprio l’efficacia di questa raffigurazione evoca in ogni creatura umana il senso della elusività del desiderio − compensato in certo qual modo dal senso che il desiderio è infinito. È una “lezione” (termine peraltro troppo freddo e scolastico) che si può estrarre da ogni grande opera d’arte; ma qui è scattata per qualche ragione un’evidenza particolare − un imprevedibile e impertinente colpo dell’ala della grazia.

– Paolo Valesio da ilsussidiaro.net, 13 febbraio 2014

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Preferirei di no

    —  Riproduco qui senza cambiamenti (a parte la restituzione del titolo originario: “Preferirei di no”) il testo di un articolo apparso il 3/2/14 su un quotidiano online, IlSussidiario.net.

Preferirei di no

lunedì 3 febbraio 2014

NEW YORK – Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro dell’astensionismo. Tutti i poteri italiani sembrano essersi schierati contro di esso: le massime cariche dello Stato, i politici e intellettuali e politologi dei più diversi colori; per esempio, l’astensionismo è stato descritto come fenomeno essenzialmente limitato agli anziani confinati in casa, agli studenti in giro per il mondo, e agli imprenditori in viaggio d’affari. Ma sarà poi vero? È possibile ridurre l’astensionismo a un fenomeno essenzialmente negativo (anti-politica, disaffezione, indifferenza alla vita pubblica)?

In un momento in cui lo scollamento della politica professionistica dall’esistenza dei cittadini sta incoraggiando la tentazione dei semi-colpettini di Stato, molti cittadini continuano a lavorare a testa bassa, contribuendo in modo costruttivo alla vita della polis; semplicemente, scelgono di non votare. C’è chi non si reca nemmeno al seggio elettorale (ma così rischia di essere categorizzato come un malato o un distratto o un pigro), chi si reca a votare ma depone una scheda bianca (la quale peraltro può essere troppo facilmente manipolata), e chi infine va a votare e annulla la scheda, in modo che non sussistano equivoci.

Il non-votante è un testimone individuale par excellence, non un partitante.

Il non-votante è un testimone individuale par excellence, non un partitante.

Uno degli spettacoli più affascinanti della vita politica in epoca elettorale è il succedersi della rumorosità e del silenzio. Prima: i proclami, i dibattiti, i manifesti, i discorsi; poi: un giorno di silenzio – il silenzio attivo (finalmente si agisce, votando) da cui usciranno settimane di rinnovato clamore. Ma chi non vota resta sempre in silenzio: prima, durante, e dopo. Almeno in Italia; perché in altri paesi – negli Stati Uniti, per esempio – c’è chi non prova imbarazzo a dire pubblicamente di non aver votato. Come l’autore, alcuni mesi or sono, di una lettera al direttore (ovviamente firmata) in uno dei più prestigiosi settimanali; il quale, parlando di una votazione a livello locale, scrive fra l’altro: “Ero così frastornato dalla mancanza di scelta nella scheda elettorale che sono andato al seggio, ho firmato il registro, ho ritirato la scheda, l’ho appallottolata, e sono uscito. Arrivato a casa, ho buttato via la scheda”. E l’estensore di quella lettera aggiunge: “Penso che il pubblico si renda conto che, al momento in cui si indice un’elezione, le scelte rimaste sono poche o nulle. E questa è una ragione per cui lamaggioranza dei votanti non va a votare”.

Naturalmente ciò è vero negli Stati Uniti, ma non Italia, dove la maggioranza degli aventi diritto al voto effettivamente vota. E così i cittadini italiani hanno periodicamente l’occasione di sentirsi superiori ai cittadini americani: i quali votano in numero limitato (ma beneficiano di governi stabili, per cui sarebbe inaudito non arrivare alla fine della legislatura), mentre gli italiani continuano ad affluire alla sagra della democrazia per eleggere (quando è loro permesso) un governo che durerà lo spazio di un mattino.

Ora, è più che probabile che le due comunità civili − la statunitense e l’italiana − continueranno a comportarsi in modo diverso; e può darsi che questa sia, per ciascuna di esse, la soluzione migliore. Resta però un rimpianto, che si traduce in un auspicio: perché non incoraggiare gli astensionisti italiani a fare sentire la loro voce, farli uscire dall’oscurità? Che non significa creare un movimento o partito − idea che andrebbe contro la logica del non-voto (la breve vita, a suo tempo, del Fronte dell’Uomo Qualunque e l’attuale contradditorietà del Movimento 5 Stelle dovrebbero servire di ammonimento in tal senso). Il non-votante è un testimone individuale par excellence, non un partitante. È offrendo la sua testimonianza, che il non-votante può cessare di essere una presenza fantasmatica. Certo, le sue parole saranno differenti da quelle dei gerghi correnti: potranno anche, al limite, ridursi a una bolla di silenzio nel bel mezzo di una rissa televisiva.

Viene in mente il protagonista di uno dei racconti americani più famosi in assoluto: “Bartleby, lo scrivano” di Herman Melville. Bartleby, umile e laborioso copista in una ditta di Wall Street, a un certo punto si rifiuta di ricopiare i documenti che gli vengono assegnati, limitandosi a dire con calma: “Preferirei di no”. Su questa frase, importanti filosofi hanno scritto recentemente numerose pagine, e qui non si pretende di aggiungere un’interpretazione in più. Semplicemente, ci sono momenti nella storia di una comunità in cui può esser utile a tutti ritagliare uno spazio di attenzione per chi dice: “Preferirei di no”.

– Paolo Valesio

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Argomento secretato

  —  Non so, e non voglio sapere, che cosa voglia dire ‘trentinolibero”, ma riporto questo testo sannelliano per la sua svagatezza para-surrealistica, che è sempre meglio dei due nemici alla cui lotta dedico i miei ultimi anni: il grande nemico dell’ideologismo, e il piccolo  —  ma anch’esso a suo modo mortale  —  nemico: la “poltical correctness” —

L’argomento del testo è secretato

Trento, 28 gennaio 2014. – di Massimo Sannelli

Rainer Maria Rilke

Rainer Maria Rilke

Aprire un documento nuovo. Fatto. Inserire il comando: prestazioni elevate. Fatto. Scrivere prima che la batteria si scarichi. Lo sto facendo. Ma rifiutare l’opzione “risparmio di energia”. È ovvio: lo schermo luminoso è molto meglio. Argomento, da trattare in 87 minuti, senza radio accesa, senza libri personali: in fondo, non sono a casa. Argomento. No, un minuto, poi lo dico. Ora “siedo e leggo un poeta” e questo fa molto Rilke, anzi è proprio Rilke, ma non ho un poeta da leggere, anche se sono seduto, e sono in biblioteca ed “è bello stare in mezzo agli uomini che leggono”, va bene, e ci sono anch’io. Ma ora non leggo, perché scrivo.

Di che cosa scrivo? Argomento, argomento! No, ancora un minuto. Ho visto che nell’espositore dei giornali “Il Foglio” di Ferrara è lacero, ma “Il Sole-24 Ore” è intatto; però è “Il Sole-24 Ore” di oggi, non quello di domenica, con l’inserto culturale. Peccato, perché non l’ho letto. Certo, queste persone “sono nei libri”, come dice Rilke, appunto. Non solo nei libri: si vedono cellulari, computer portatili – anche il ragazzo etiope che mi ha chiesto informazioni in inglese – e bottiglie d’acqua, sempre da mezzo litro. Tutti sono seduti, anch’io, ma una ragazza con i cappeli neri è in piedi e sfoglia un quotidiano rilegato. Anch’io l’ho fatto: quando si sfoglia un vecchio quotidiano rilegato si sta in piedi, come se fosse meglio. È bello leggere del primo scudetto del Genoa, quando i giornali spiegavano: “Il foot-ball è il gioco della palla con i piedi”. Nel 1898 Elisabetta d’Austria, la Signora, passa per Sanremo, il giornale lo segnala e fa molto bene; e a settembre esce la notizia che non si vorrebbe leggere. Ecco, io dovevo aprire un documento nuovo e l’ho fatto, e inserire il comando “prestazioni elevate” – non è niente di corporale, ma suona bene – e poi scrivere, prima della fine della batteria. Ho eseguito tutto, puntualmente. Ho ancora 69 minuti per scrivere e non è un tempo enorme, ma nemmeno breve. Attenzione, la ragazza del quotidiano è sempre in piedi, coi jeans e la maglietta nera, e un’altra maglietta blu, sotto. Non l’ho spogliata, neanche con gli occhi; ma la maglietta blu esce sotto la nera e tutto è chiaro.

Di che argomento devo parlare nei 68 minuti che restano? Un attimo, un attimo, perché ora la ragazza è di spalle e vedo che le ha larghe; e forse non è molto alta, ma non importa. A proposito: chi è mancino, qui? Non tutti scrivono, sono pochi con la penna in mano, ma i pochi scrivono con la destra; e – per fortuna – la ragazza si è girata, no, mi sbaglio, sta cambiando posto. Il 65° minuto inizia e con il tasto F5 posso aggiornare l’email, ma nessuno ha scritto, e apro la mente al“soffio di qualcosa che verrà”, ma è troppo, insomma non scrive nessuno, niente di niente. Per ora, dico. Perché poi scriveranno, è certo. E se aprissi Facebook, sono certo che troverei amici a chiacchierare, ma se ora apro Facebook non scrivo più, mi dedico solo a Facebook e io che ci faccio con Facebook, ora che devo scrivere un articolo? Sono sei giorni che non ne mando ed è grave. E devo rimediare. Devo ricominciare, anzi ho già cominciato; è vero che non ho ancora affrontato l’argomento, lo so, e anche questo è grave (è grave non averlo affrontato? Sì, ma la buccia delle cose è tanto bella, e anche le signorine con gli occhiali sono molto belle: una si chiama Miss Simpatia, da anni, e non scherzo). Ma è grave anche questo: sapere di sapere, perché sapere di sapere che l’argomento non è stato ancora trattato crea un po’ di dolore. Macché dolore, su. Per una pagina? Non è vero. Non c’è dolore, proprio nessun dolore. E la pagina si ferma qui e non ha parlato di niente.

No, occhio, bambìn, due negazioni possono affermare. A dire il vero, la pagina ha trattato di qualcosa: chi vuole, ci vede una “variazione su nulla”, stile Ungaretti-Terra Promessa, e se ce la vedo io non glielo impedisco. In fondo, Ungaretti se l’è goduta parecchio, e ha sofferto in proporzione. Va bene, se uno ci vede la variazione su nulla. Ma c’è dell’altro: io, questo nulla, l’ho selezionato, l’ho ritagliato; insomma l’ho scritto. E l’ho messo qui, puro e semplice. Bene: se erano disposti a pagare come oro la “merda d’artista” di Piero Manzoni, ora anche queste 46 righe di word possono essere oro. Lo fossero, oro. Eia, riga 47, e spingo il tiro fino a questo PUNTO.

Da TrentinoLibero.it

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