Archivi del mese: aprile 2021

IL LABORATORIO DELL’ETICA

Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilSussidiario.net” il 26 aprile 2021 col titolo “Caso George Floyd, in Usa c’è una tentazione totalitaria non risolta”.

IL LABORATORIO DELL’ETICA

D’accordo: nel caso di George Floyd, giustizia è stata fatta; d’accordo: “giustizia” (in questo come in tutti i casi simili) è un concetto relativo; d’accordo: molti ulteriori passi avanti sono necessari. Tutto questo è già stato ampiamente notato. Ma che cosa succede se proviamo a fare un piccolo passo di lato, tentando quello che si chiama un “esperimento intellettuale” (o meglio, un esperimento etico)?

 E’ prevedibile e giusto che la fine tragica di George Floyd ispiri opere narrative, cinematografiche, teatrali — le quali sono laboratori etici prima ancora che artistici; nel senso che ogni membro del pubblico diviene spettatore dei suoi moti interiori come fossero (in senso tutt’altro che frivolo) uno spettacolo: li esteriorizza, mentre al tempo stesso interiorizza i movimenti della società intorno a lui/lei. Con il risultato che questa diciamo così ispezione in una qualche misura lo cambia, e cambia anche la sua visione del mondo. 

 Ma che cosa bisogna che abbia luogo, perché questa doppia mutazione accada veramente? Nell’antica Grecia il teatro fu inventato (e così la natura del pensiero occidentale fu trasformata) quando, a uno che monologava in poesia su un palco, fu aggiunta un’altra persona che sullo stesso palco gli replicava dissentendo. Prima lezione allora, di cui tutti si ricordano: perché un testo teatrale (o cinematografico, o simili) esista, ci vuole un conflitto. Seconda lezione, di cui molti si dimenticano (soprattutto a Hollywood): perché il conflitto sia interessante, non dev’essere a senso unico.

 Esempio concreto: l’avvocato difensore del poliziotto accusato nel caso Floyd si è trovato a difendere l’indifendibile. In questi casi, nei regimi totalitari o semi-totalitari ci si affretta a suggerire non troppo sottilmente che anche l’avvocato che difende il crimine meriterebbe di trovarsi sul banco degli imputati. Questo, a Minneapolis non è accaduto. Ma purtroppo non sono mancate tracce di questa tendenza para-totalitaria; quando per esempio, commentando quel processo, uno dei giornali statunitensi più autorevoli (che qui non nomino se non per dire che non si tratta, una volta tanto, del New York Times) ha buttato lì l’apprezzamento che quell’avvocato avrebbe fatto affermazioni dalle implicazioni razziste. 

Il criminale con i complici che hanno scampato la giustizia

 Che è una falsità, come ha potuto verificare chiunque abbia seguito in diretta l’abile arringa: quell’avvocato ha svolto il suo lavoro con eloquenza, precisione, delicatezza. Pur sapendo che sostanzialmente tutti gli erano contro, e che comunque non ce l’avrebbe mai fatta perché il caso sostenuto dalla pubblica accusa era troppo chiaro e forte, quel legale – volendo svolgere al meglio il suo dovere, senza adagiarsi in una difesa d’ufficio — si è mosso continuamente (e in modo perfettamente lecito) sul sottile crinale dei dettagli, dei chiaroscuri, delle ambiguità, delle differenze di percezione. Con tutta la fatica e tutto il rischio (ma ripetiamolo: stava facendo il suo dovere) di immergersi e immergerci in quei dettagli mentre restava vivo nella nostra mente il terribile quadro generale.

La dignità di un difensore dell’indifendibile

 Allora, ecco: siccome “non è proibito pensare” (come dice la Carmen di Bizet) si può ipotizzare che, per esempio, un film non banale su questo caso clamoroso dovrebbe dedicare, se non intendesse restare alla superficie dell’arte e della vita, qualche spazio al dilemma etico e professionale di quel difensore. Ma di che cosa parlerebbe, in fondo, l’eventuale “spettacolo” dedicato a questi eventi? Si interrogherebbe sulla perdita di vite umane — quella che l’inglese chiama senza altre specificazioni loss of life: e l’apparente genericità di quest’ultima espressione rafforza invece il senso di una lacuna integrale — una perdita di mondo, al di là delle singole vite.

 In ogni atto di violenza omicida si annida un tremendo groviglio fra una sopravvalutazione di vita (quella di chi uccide) e una sottovalutazione di vita (quella di chi viene ucciso); ma emerge anche una furiosa contraddizione: sottovalutando la vita dell’altro, l’uccisore finisce anche con il buttare la sua propria vita in un pozzo da cui sarà molto difficile farla uscire. I grandi tragici, dai già citati Greci a Jean Racine e oltre, questo l’hanno sempre saputo. Ma non c’è bisogno di essere né antichi né grandi né autori di tragedie — basta essere uno sceneggiatore coscienzioso — per fare un buon lavoro in questo senso. Perché la posta in gioco, qui, va ben al di là di un singolo spettacolo.

  Paolo Valesio

I personaggi del dramma dell’avvenire

2 commenti

Archiviato in Uncategorized

 IL PENSIERO DEL RIBELLE

Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilSussidiario.net” il 15 marzo 2021 col titolo “Camus e la lezione del ‘ribelle’ (in tempo di Covid)”.

 IL PENSIERO DEL RIBELLE

 “Una sola immagine può valere quanto mille parole”, dicono. E’ un’utile esortazione a puntare sempre verso l’evidenza rappresentativa; tant’è vero che si è tentati di estendere questa esortazione all’idea che qualche volta (non sempre) una sola citazione possa valere quasi quanto un lungo saggio: come per esempio il classico L’homme révolté (L’uomo in rivolta) di Albert Camus (Premio Nobel 1957). Il saggio di Camus è una lunga analisi filosofica (più di 300 pagine), ricca di importanti considerazioni storiche, politiche, letterarie; e vale ben la pena di leggerla integralmente. Ma nella situazione che noi tutti viviamo (subiamo) oggi, i paragrafi iniziali di L’homme révolté sono quelli che ci parlano più direttamente:

“Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma, se è vero che egli oppone un rifiuto, non è vero però che esprima semplicemente una rinunzia: è al tempo stesso un uomo che, fin dal suo primo impulso, dice sì. Capita che uno schiavo, che per tutta la vita non ha fatto altro che ricevere ordini, si trovi di fronte a un comando che d’improvviso egli ritenga inaccettabile. E qual è il contenuto del suo ‘No’? Esso può significare per esempio: ‘Questa situazione è durata fin troppo’, o ‘Fin qui, sì; più oltre, no’, oppure: ‘Guardi che lei sta andando troppo in là’, o ancora: ‘C’è un limite che lei non può superare’. Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. E la stessa idea del limite si ritrova nella sensazione, propria del ribelle, che l’altro ‘stia esagerando’ — che cioè estenda troppo il suo diritto e oltrepassi una frontiera a partire dalla quale gli sorge di fronte un altro diritto che lo limita. Così il movimento della rivolta poggia sul categorico rifiuto di un’intrusione considerata intollerabile, e al tempo stesso sulla confusa certezza di un buon diritto; più esattamente sull’impressione, da parte del ribelle, di ‘aver diritto a’. 

La rivolta è sempre accompagnata dalla sensazione che uno ha, in qualche modo e in qualche misura, ragione. E’ per questo che lo schiavo in rivolta dice al tempo stesso sì e no. Nel momento in cui afferma la frontiera, afferma tutto ciò che egli intuisce, e che vuol preservare, come situato al di qua della frontiera. Egli dimostra con pervicacia che vi è in lui qualcosa che ‘vale la pena di’, qualcosa che esige che vi si faccia attenzione. In certo modo, egli oppone all’ordine che lo opprime una sorta di diritto a non essere oppresso al di là di quello che egli possa ammettere”.

La fedele traduzione rivela al tempo stesso la forza generale e un piccolo neo di questo discorso di un grande scrittore. Si è mantenuto infatti, per scrupolo di letteralità, il termine “schiavo” del testo originale; ma questa scelta lessicale di Camus è un po’ enfatica, e riflette l’iperbolismo ancora nietzscheano che pervade vari punti del suo saggio (il quale risale al 1951). Il soggetto di cui si parla qui non è veramente lo “schiavo” (termine troppo forte che, per paradosso, rischia di trasportarci in una rassicurante distanza archeologica), ma il suddito: e qui si entra nel cuore della nostra contemporaneità. Il suddito che si ribella è una figura in via di formazione, una figura embrionale: e in fondo non importa quanto chiara sia la meta della sua ribellione. Importa piuttosto che con essa il ribelle o la ribelle cominci il processo di maturazione che lo porti alla figura compiuta del suo ruolo sociale: quello del cittadino e della cittadina.

Un popolo di sudditi che si ribella solo al bar

Fra le varie iniziative più o meno ottimistiche con le quali si tenta di non farsi schiacciare dalla pandemia, forse la più durevole sarà quella di cui sembra si parli di meno: cioè una rinnovata meditazione sul problema e la sfida della cittadinanza.

Paolo Valesio 

1 Commento

Archiviato in Uncategorized

QUALCOSA DI MARCIO

“C’è qualcosa di marcio nello Stato di Danimarca”

QUALCOSA DI MARCIO

“C’è qualcosa di marcio nello Stato di Danimarca”: dice all’inizio dell’Amleto shakespeariano una delle sentinelle che passeggiano nervosamente sugli spalti, in attesa che appaia lo Spettro. Se ci spostiamo in Italia (ma già la Danimarca di Shakespeare era una metafora molto generale), il “marcio” non corrisponde completamente alla solita lista (corruzione, inefficienza burocratica, giustizia in ritardo, ecc.) che viene snocciolata dai principali responsabili di ciò, per anticipare ogni critica: questo marcio va ricercato soprattutto nel compiacimento cinico e fatalistico della cosiddetta gente (cioè gli altri, quelli che non siamo né tu né io, naturalmente). Atteggiamento già descritto esattamente un secolo fa, in una pagina tagliente di uno dei più bei romanzi del Novecento italiano: Rubè di Giuseppe Antonio Borgese. E’ il punto in cui si parla dell’atteggiamento diffuso tra gli italiani durante la Grande Guerra, ai piani alti della politica, del giornalismo, della diplomazia, degli apparati militari e della cultura: spettatori ironici e distaccati, compiaciuti della propria intelligenza critica, come se la tragedia non li riguardasse direttamente.

Qui non si vuole certo confondere uno stato di emergenza con uno stato di guerra (o almeno, si lascia ad altri l’onere di sviluppare questo parallelo). Però, a proposito di guerre, viene in mente una frase (c’è chi la ha ascoltata con le proprie orecchie) detta all’inizio dell’escalation, ad opera di un’Amministrazione democratica, della guerra americana nel Vietnam — la frase coraggiosa di un cittadino americano che caratterizzava quella guerra come: “illegittima, illegale, immorale”. (E voglia il cielo che la nuova Amministrazione democratica, così baldanzosamente decisa a cancellare ogni traccia della passata presidenza, non decida che i quattro anni trascorsi siano stati troppo “pacifici”.)

“L’allegoria ed effetti del buon governo” di Ambrogio Lorenzetti, Palazzo Pubblico di Siena

Quanto alla nostra piccola “Danimarca” (e lasciando da parte ogni speculazione sullo “Spettro” che vi si aggira): gli ultimi governi italiani sono stati i governi dei nominati, dei chiamati, degli illuminati — insomma governi dei non-eletti nella prassi, pronti a trincerarsi dietro uno Stato in cui la non-elezione è una prerogativa istituzionale. Tutto ciò, forse, non è illegittimo o illegale, ma qui si parla di questioni etiche che riguardano ogni cittadino, anche il più modesto e privato (il cittadino ino-ino, per così dire). Qui è in gioco lo spazio di parola in cui sia possibile sostenere che l’andazzo governativo degli ultimi decenni in Italia sia sostanzialmente illegittimo e immorale. 

E’ comprensibile che una cittadinanza piegata dalla pandemia possa considerare queste riflessioni come qualcosa di simile a un lusso, “quando ci sono tante cose più urgenti da fare”; e forse si potrebbe anche comprendere che una tale comunità, in preda all’infantilizzazione provocata dalla propaganda della paura, si rassegni ad aspettare le elezioni per un periodo di tempo indefinito. Tuttavia: questo modo di considerare i cittadini italiani — questa “comprensione” apparentemente così realistica e concreta, così bonariamente popolare — non potrebbe essere la maschera (o mascherina) di un atteggiamento di condiscendente degnazione, come se il popolo non fosse composto di individui autonomi, e come se ogni individuo non avesse la divina capacità di sorprendere se stesso e gli altri? In effetti, ci sarà sempre chi, anche costretto a obbedire, trova impossibile obbedire con rispetto; ci sarà sempre chi rifiuta nel proprio cuore, non questa o quella compagine governativa; ma tutto questo tipo, questa “logica”, di governo. Rifiutare un governo nel proprio cuore può apparire a prima vista come un’idea ingenua, buona per far ridere i professionisti della politica. E invece no: questo rifiuto (riderà bene chi riderà l’ultimo) può essere la molla del cambiamento. 

      — Paolo Valesio 

Lascia un commento

Archiviato in Critica, politica