Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il 10 novembre 2016 col titolo “TRUMP PRESIDENTE USA/ ‘The Donald’, la fine è (già) dietro l’angolo”

Incomincia la tragedia
A VOLTE, BASTA UNA PAROLA
Mattina di mercoledì 9 novembre: una vasta sala disadorna dentro il ventre dell’albergo Hilton sulla Avenue of Americas a Manhattan (un albergo di lusso ma non veramente lussuoso; cioè, come spesso sono gli alberghi americani, un po’ pacchiano – ma vi si può bere un buon “Bloody Mary”). La sala brulica di persone di ambo i sessi e che appartengono a varie generazioni. Di fronte a questa folla che agita i soliti cartelli e che è vestita come a un picnic in spiaggia si erge un palco sul quale cominciano a sfilare il vice-presidente e il presidente degli Stati Uniti, freschi freschi di elezione, accompagnati dalle rispettive e numerose famiglie; con le donne che a un occhio italiano (perfino all’occhio di un uomo) sembrano sempre un po’ infagottate – perfino le signore Trump, con i loro abitini bianchi. Dopo poche parole del neo-vice-presidente Mike Pence, Trump tiene un discorsetto alla buona, occupato per la maggior parte dai ringraziamenti ai familiari e ai colleghi.
Così, in questo modo dimesso (è da molte settimane che Trump si è lasciato alle spalle la sua fase infuocata), comincia un nuovo periodo nella storia politica degli Stati Uniti. Ogni vera novità è dirompente, e suscita immediate emozioni; a cui uno si sente comunque partecipe, specialmente se non è un professionista dell’ideologia. E per esempio, mi ero sentito quasi commosso venendo a sapere di mie ex-colleghe che mercoledì erano venute a far lezione con gli occhi rossi. Ma (com’era da aspettarsi) il linguaggio dell’emozioni è stato subito reclamato dall’ideologia: ho appena ricevuto una lettera ufficiale, rivolta a tutto il campus, dal rettore di una grande università dell’Ivy League di cui per carità di patria taccio il nome, in cui questa autorità dichiara di impegnarsi a far sì che, nel suo campus, “le persone addolorate possano avere le opportunità adatte per menzionare e discutere tutta l’angoscia che esse sentono in questo momento”! Ecco l’effetto di infantilizzazione su cui il discorso della cosiddetta “correttezza politica” – cioè del totalitarismo ideologico dell’eufemizzazione – basa il suo potere. E ci vorrà qualche tempo ancora prima che le classi chiacchierone (the chattering classes , come qui sono chiamate ironicamente) si rendano conto che uno dei significati di questa elezione è che è cominciato il tramonto di questo pensiero unico.

Anche se perde il voto popolare, il Donald prende il campo
Ma la novità non si definisce soltanto in termini negativi, e guardando indietro: essa si pone soprattutto come un tentativo di costruzione che guarda in avanti. Si può trovare qualcosa di simile, nel discorsetto diplomatico di Trump, martedì allo Hilton? Beh, si è rintracciata una sola parola (ma è già qualcosa): il termine “movimento”, che Trump ha pronunziato tre volte (“la nostra non è stata una campagna, ma piuttosto un incredibile e vasto movimento” ecc.). E’ una parola che segnala una trasversalità rispetto alle divisioni partitiche (e anche l’inizio della resa dei conti che Trump , il non-politico che sta diventando politico, comincerà a fare con il “suo” – si fa per ridere – partito); ed esprime anche il suo desiderio di dar forma al magma sociale che lo ha portato alla vittoria: cioè a tutto quel complesso di cittadini che sono stati finora disprezzati dagli ideologi di professione arroccati nelle università, dal mondo dei media in generale e da Wall Street.
Ma non si può rispondere al disprezzo con il disprezzo: se il “movimento” non sarà in grado di recuperare quegli elementi sociali che finora lo avevano scomunicato, esso finirà ancor prima di cominciare.
Paolo Valesio
Bologna / New York