Archivi del mese: aprile 2013

Codex Atlanticus

CODEX ATLANTICUS 13

Bologna                                                                              5 dicembre 2012

 

Cominciano a essere noiose,  tutte queste geremiadi contro il potere …  Il meno che si possa dire di un intellettuale che non senta e studi il fascino del potere è che non capirà mai Balzac. In questo generalizzato  bla-bla-bla di biasimo, “la mappa del potere” è una delle metafore più usate, per non dire più logore. Ma il potere non problematizza soltanto lo spazio (i rapporti verticali gerarchici, i rapporti orizzontali competitivi, i diagrammi gli organigrammi ecc.), bensì anche il tempo. La tempistica del potere è almeno altrettanto complicata che la tempistica dell’amore. L’innamorarsi e il disamorarsi (falling in and out of love), tutte le peripezie dell’amore, dalle più metafisiche alle più fisiche, come i tentativi di coordinare i ritmi degli orgasmi  —  tutti questi sono fenomeni di vitalità, sono un alimento inesauribile di vita; dunque, un inesauribile nutrimento dell’arte. Dire ciò è, in fondo, enunciare un’ovvietà. Dovrebbe essere ugualmente ovvio allora (ma non sembra esserlo), che lo stesso ragionamento vale per la fenomenologia del potere. I ritmi del potere nel tempo (soprattutto, nel tempo biologico dell’individuo) sono frustranti; ma anche i ritmi dell’amore lo sono. D’altro canto i  ritmi dell’amore, come tutti sanno, sono al tempo stesso affascinanti; e con ciò?Anche i ritmi del potere lo sono.

Il potere viene da Dio (ci ricorda, fra altri, il teologo Romano Guardini). La debolezza fondamentale della politica italiana, per esempio,  nasce dal fatto che essa, in  comprensibile reazione all’eccesso di potere in Italia fra il 1925 e il 1943, si getta da allora in avanti dentro un’orgia di non-potere, ovvero di un potere diviso, sminuzzato, polverizzato , “sparpagliato” (per usare un termine di Peppino De Filippo). E la mancanza di un forte nucleo centrale di potere porta, paradossalmente ma non tanto, a una serie di abusi di potere.

 

 

Bologna                                                                               21 dicembre 2012

 

È difficile, rispettare la politica: da qualunque parte o partito essa provenga, e in qualunque paese si realizzi. D’altra parte, non è facile intrattenere a lungo l’idea dell’antipolitica; e una posizione totalmente apolitica sembra impossibile (con buona pace dell’ unpolitisch  Thomas Mann). È in questo fondamentale blocco della  scelta che risiede la favilla di nobiltà (la quale può accendere tragici falò) della politica.

Ma vi è anche un’altra possibilità, che io chiamerei la sub-politica.  Si può guardare la politica dal basso in alto, anziché dall’alto in basso  —  guardarla con un certo distacco, che non esclude l’interessamento e non vieta il rispetto. La base della sub-politica è il lavoro  di sostegno modesto e solidale,  un lavoro a testa bassa dentro la polis  —  un lavoro peraltro non necessariamente dimesso o minimalistico. Questo “lavoro” può essere, per esempio, quello del cittadino che è  anche pronto, quando la coscienza glielo indichi,  a votare scheda bianca; che accetta il rischio di essere considerato  (erroneamente) come marginale; che è sempre alla ricerca della pace  —  come uomo di pace piuttosto che come pacifista dottrinario.

 

 

Bologna                                                                                   30  dicembre 2012

 

Secondo alcuni, “Risorgimento” è termine improprio perché quando si verifica questo movimento l’Italia non esiste ancora; dunque non vi è un’entità che possa, strettamente parlando, risorgere. Ma questo è un po’ un cavillo, perché in realtà  qualcosa c’era  —   qualcosa che poi risorge: un’entità culturale e sociale, un pensiero filosofico-politico, che fino a metà Ottocento esisteva in uno stato di marginalizzazione e che in quell’epoca emerge a nuova vita. Se poi il termine continua a suonare un po’ sfasato, ciò accade per un’altra ragione. “Risorgimento” suggerisce  una ri-emersione lenta e solenne; mentre quello che accade nell’Italia ottocentesca è qualcosa di violento, turbolento, ambiguo e anche tinto di opportunismo —  meglio allora parlare di “Insorgimento”. Insomma il Risorgimento è un insorgimento che si istituzionalizza. Il secondo importante insorgimento che si istituzionalizza (con terribili conseguenze) è il fascismo. Caduto il fascismo, tutta la successiva storia politica d’Italia è una storia di piccoli insorgimenti più o meno striscianti e più o meno istituzionalizzati.

L’Italia di oggi è ancora un’Italia insorgimentale, in cui la guerra civile che si è scatenata alla caduta del fascismo si è trasformata in una semi-guerriglia civile continua, punteggiata di colpettini di stato: i governi si succedono con grottesca rapidità, in una serie di “crisi di fiducia”. Gli insorgimenti degni d’attenzione nella campagna elettorale di quest’anno sono due: il Movimento Cinque Stelle e l’astensionismo; e mi soffermo un momento sul secondo. Parafrasando la battuta probabilmente apocrifa di un comico statunitense del primo Novecento (“Chiunque non può sopportare né i bambini né i cani non può essere completamente cattivo”) si potrebbe dire che, quando un fenomeno attira su di sé gli strali della comunità  —   dal presidente della Repubblica al benpensante in salotto all’intellettuale in salon  al perdigiorno in qualche bar  —  non può essere un fenomeno politicamente privo di interesse. L’astensionismo con o senza la scelta della scheda bianca (vedi 21 dicembre)  è un fenomeno che non vuole analizzarsi o sistematizzarsi troppo, un movimento che non  emana proclami e  in effetti nemmeno si pone come movimento: dunque, non teme la marginalità e l’oscurità. Quella degli astenuti è una comunità non comunitaria che si potrebbe definire con il titolo di un libro di Maurice Blanchot: La communauté inavouable  —  la comunità inconfessabile o inammissibile; non perché si vergogni di essere tale, ma perché si rifiuta di definirsi in termini  precostituiti. Dei membri di questa comunità, non sarebbe esatto dire che non votano: essi piuttosto esprimono un non-voto. Può sembrare una distinzione di lana caprina, e invece non lo è: si tratta di una differenza autentica, e  sofferta.

Chi non-vota o vota bianco è spesso una persona che segue appassionatamente la politica, o comunque non le volge le spalle e non si mette in pantofole. La sua è la visione di un singolo, di una figura della singolarità: che non guarda (ripeto) la polis dall’alto in basso, ma ha una visione realisticamente modesta  — addirittura umile –  della propria idiosincratica esperienza. A questo proposito, bisogna riconoscere che l’etichetta di “astensionismo” (con la sua connotazione negativa di pigrizia, inerzia, indifferenza) è inadeguata; si tratta in realtà di un insorgimento pacifico e silenzioso. Pacifico, ma non esente da pericoli (e da quando in qua un movimento pacifico non è esposto a pericoli?):  infatti, una crescita notevole del movimento  —  che lo renderebbe davvero visibile sulla scena politica — causerebbe quasi certamente una reazione repressiva (più o meno velata, più o meno dura) da parte degli apparati di stato. Questo tipo di insorgimento infatti, se si diffondesse potrebbe avere come effetto quello (per dirla all’inglese) di starve the beast, ‘ridurre la bestia alla fame’ —  la bestia in questione essendo il rigonfio corpo politico, the body politic. Per parlar chiaro: una drastica diminuzione degli elettori porterebbe prima o poi all’auspicabile riduzione nel numero dei politici che affollano il Senato e la Camera.

 

 

Bologna                                                                                                           3 gennaio 2013

 

La dialettica fra cristianesimo (in modo particolare, cattolicesimo) e modernità si può descrivere in vari, e a volte opposti, modi; per esempio, come radicale distanza fra modernità e tradizione cristiana, o all’opposto, come quella che è stata chiamata (penso a certi scritti del teologo Marcello Neri) l’esteriorità —  in senso positivo  —  del cristianesimo; cioè il suo essere presente in modi spesso imprevedibili dentro tutti gli spazi del moderno. Ma se il cristianesimo, nei suoi aspetti più statici e autoritari, può essere messo in crisi dalla modernità, per altri aspetti  — quelli che riflettono la sua forza spirituale e trascendente  —  esso a sua volta mette in crisi la modernità nella sua dimensione di autosufficienza e autocompiacimento.

Il  rapporto conflittuale della Chiesa con la modernità  non dovrebbe esser visto come un problema, bensì come uno degli aspetti più importanti del genio del cristianesimo (per usare l’espressione di Chateaubriand). Infatti il culto del moderno come valore assoluto, che poteva avere una funzione dirompente al crinale fra Ottocento e Novecento, ha finito con il logorarsi, è divenuto superficiale  —  e il “post-moderno” non ha saputo veramente cambiare la situazione (la sua stessa denominazione è il simbolo di un rapporto di dipendenza). I momenti in cui il moderno è stato vissuto e pensato in profondità sono quelli in cui si è riconosciuta l’indispensabilità di un dialogo costante e di un rispettoso confronto con l’antimoderno, con la tradizione  —  parola  scritta se necessario con la maiuscola. (Penso per esempio all’opera di Elemire Zolla.) Il cattolicesimo comunque ha continuato saggiamente a vivere il moderno nella sua dialettica con l’antimoderno.

Per esempio, e anche al di fuori dell’ambito strettamente cattolico: la poesia contemporanea è tutta pervasa dal culto della corporeità —  che naturalmente è un elemento irrinunciabile della scrittura poetica. Ma bisogna anche rendere  giustizia al trascendente dentro il corporale, allo spirituale dentro il desiderio. Ecco una dialettica che ha ancora bisogno di essere esplorata, nella pratica così come nella teoria, e per lo sviluppo della quale una sensibilità spirituale  —  non solo religiosa, non solo cattolica — è per lo meno importante.

 

Bologna                                                                                   6 gennaio 2013

(Giorno dell’Epifania)

Per una sorta di sincronicità arrivano sul mio tavolo nel giro di pochi giorni tre libri di provenienza diversa (uno acquistato dopo averne letto una recensione, gli altri  due regalati da un amico): libri uniti/divisi da alcune significative similarità e differenze, ma tutti connessi al periodo storico-letterario che mi sta sempre più interessando.

Il primo ad arrivare è stato il Diario (1941-1943) di Etty Hillesum, nell’edizione integrale curata da Jan G. Gaarlandt, con  versione italiana di Chiara Passati e Tina Montone e con Ada Vigliani (Milano, Adelphi, 2012); il secondo e il terzo (oggetto dello stesso regalo) sono stati: Lettere alla fidanzata, Cella (2 (1943-1945) di Dietrich Bonhoeffer e della sua fidanzata Maria von Wedemeyer, a cura di Ruth-Alice von Bismarck e Ulrich Kabitz, nella traduzione di M. Claudia Murana (Brescia, Editrice Queriniana, 2012 );  insieme con Dietrich Bonhoeffer, Poesie, a cura di Alberto Melloni (Magnano [Bi], Edizioni Qiqajon, 1979).

L’affinità fra queste tre opere è fin troppo chiara, collocandosi esse sotto l’ombra terribile dell’Olocausto. A più modesto livello, ciò che in primo luogo mi interessa anzi mi coinvolge è il genere, o la mescolanza di generi, dei primi due libri. Un diario e un epistolario hanno, oltre alle chiare differenze, molti elementi in comune: ogni epistolario ha un andamento diaristico, e d’altra parte ogni diario si configura in parte come una serie di lettere che l’autore scrive, in un certo senso, a se stesso/a. (Non so se sia vero quello che scrive John Donne nell’incipit della sua scintillante poesia To Sir Henry Wotton:  “Sir, more than kisses, letters mingle souls, / For thus, friends absent speak”, cioè: ‘Mio signore, le lettere mescolano le anime più che i baci,/ perché attraverso di esse gli amici parlano anche se assenti’; se così è, un diario  può incoraggiare il solipsismo ma anche la comunione o commistione di un’anima con se stessa: che è un’ occasione favorevole ad  approfondimenti spirituali.)

L’autrice della prima opera è una giovane ebrea olandese, appassionata al mondo ma aperta anche ad esperienze spirituali; l’altro autore è un autorevole teologo del luteranesimo tedesco, nella  prima maturità della sua esistenza. Entrambi vengono massacrati nei campi di concentramento nazisti. Ma nessuna delle due analogie menzionate sopra (martirio nell’Olocausto, dimensione diaristico-epistolare) spiega perché introducendo questi casi io abbia parlato di sincronicità.Tale sincronicità deriva dal fatto che i tre libri si sono subito, per così dire, allargati in un quarto: essi infatti mi hanno raggiunto nel momento in cui andava in stampa  l’edizione  che ho criticamente curata (insieme con  Patrizio Ceccagnoli), e  introdotta, di un romanzo scritto da Marinetti fra il 1943 e il 1944 e rimasto inedito fino a oggi: Venezianella e Studentaccio. Questo incontro/scontro di libri mi ha riportato alla necessità, che  (come dicevo) sento sempre più, di una  riflessione sulla letteratura negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale  —  gli anni horribiles dell’Europa, e del mondo (1943-1945)  —  con uno sguardo che tenti di abbracciare entrambi i campi in conflitto. Non è questione, ovviamente, di stabilire un’equidistanza etica fra i due campi in guerra: quelli che si sono battuti , e hanno perso, sotto le bandiere della dittatura, e quelli che hanno combattuto (e vinto) sotto le bandiere della democrazia.  Si tratta  piuttosto di ricercare le tracce di sopravvivenza dell’umano anche in luoghi a prima vista imprevedibili.

La prospettiva adottata è primariamente letteraria ma, proprio per questo (una prospettiva letteraria è sempre in qualche modo umanistica), essa non ignora i rapporti con la società e con la storia. C’è una frase che trovo illuminante nella breve introduzione  scritta dalla sorella della ex-fidanzata di Bonhoeffer (e curatrice della raccolta citata), Ruth-Alice von Bismarck:

“[…] abbiamo pensato che il tramonto di un mondo possa essere compreso solo nei dettagli molto particolari. Perciò abbiamo tentato ancora una volta di conferire contorni e colore un po’ più netti allo sfondo della vita dei due corrispondenti” (p.7).

Questo tramonto di un mondo è coinciso con l’infanzia del sottoscritto.Anni or sono collocai come epigrafe a un mio saggio marinettiano una frase del romanzo Quatrevingt-treize (Novantatré)  di Victor Hugo: un romanzo che descrive gli anni del Terrore e della guerra civile  all’epoca della  Rivoluzione francese; la frase è:  “Cette guerre, mon père l’a faite, et j’en puis parler”. (Questa riflessione vittorughiana fece pensare allora, e continua a farmi pensare,  a mio padre prigioniero di guerra per lunghi anni nel deserto egiziano: mio padre a cui non ho mai avuto il coraggio di chiedere che mi raccontasse la sua guerra  —  e adesso è troppo tardi.) Ho letto da qualche parte che per molti anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale gruppi di soldati  italiani si arrampicavano (a volte sembra che addirittura si paracadutassero) sui pendii dolomitici alla ricerca dei resti dei caduti : di tutti i caduti, da entrambe le parti. La ricerca cui penso si colloca in questa dimensione di recupero  —  tardo (nella storia del mio paese, nella storia della mia vita) e assai limitato — ma pur sempre recupero.

Tornando ai “dettagli molto particolari”. Nel romanzo Venezianella e Studentaccio  gioca un ruolo significativo un portasigarette d’oro regalato alla protagonista dal protagonista, perduto a un certo punto dell’azione romanzesca e poi ritrovato alla fine. Si tratta di quello che i critici letterari chiamano oggetto testimoniale o, oggetto mediatore: su cui si concentrano varie emozioni e azioni, e che viene dunque caricato di valori simbolici pur senza perdere la sua concretezza; un oggetto, in questo caso, che incarna una cultura in cui il fumo rappresentava ancora un elemento di fascino e lusso modernistico, prima della condanna postmoderna  —  un oggetto fittizio che però ha sempre il potenziale di fare in certo modo da ponte tra realtà e finzione, soprattutto in situazioni culturali dove gli autori letterari scomparsi sono però ancora al centro di una rete di parenti e amici ancora in vita.

È così che, appena letto il romanzo, uno dei membri della famiglia Marinetti mi ha scritto ricordando un portacenere vero (non finzionale come quel portasigarette d’oro) e veramente appartenuto a Marinetti:  un portacenere che quel familiare aveva salvato dal saccheggio dell’abitazione di FilippoTommaso al momento del crollo del regime  —  un portacenere che è divenuto a sua volta oggetto mediatore (anche se in un contesto biografico ed epistolare piuttosto che in una costruzione letteraria), stimolando quella persona di famiglia a ricostruire tutta una storia di tumulti e rappresaglie e fortunosi salvataggi …

—   Ma come? —  potrebbe esclamare qualcuno   —  siamo alla svolta tragica nella storia del Novecento in Italia, e  ci perdiamo a parlare di portasigarette (veri o inventati) e di portacenere (inventati o veri che siano)?  Qui però debbo richiamare la saggia riflessione della von Bismarck citata sopra, che io parafraserei come segue: il tramonto di tutto un mondo è una cosa così complessa e grandiosa  —  così tragica  —   che a volte il pensiero deve considerare questo tramonto con uno sguardo obliquo, dal basso in alto, per non restarne sopraffatto. Senonché questa precisazione potrebbe suscitare un’ulteriore, e più aspra, obiezione, questa volta di tipo ideologico (gli ideologi non arretrano davanti a nulla): che cioè il rapporto che ho appena delineato  —  tra la frase dell’erede spirituale di una vittima del nazismo e un episodio nell’arte-vita di uno scrittore allineato al fascismo  —  è politicamente scorretto o perlomeno di cattivo gusto.

Ma non bisogna farsi intimidire, o auto-censurarsi, di fronte alla possibilità di un tale attacco. Il buon gusto è una virtù piccolina o minimalistica, che è utile fino a un certo punto ma oltre a un certo livello perde la sua pertinenza anzi rischia di paralizzare  —   e non c’è bisogno di andare molto lontano per trovare questo livello di guardia: basta pensare alla moda. Ciò che è qui in gioco, comunque, non è la moda bensì qualcosa di più importante, come l’estetica: e precisamente l’estetica nel suo imprescindibile nesso con l’etica e altresì nel suo nesso, difficile da ignorare, con la storia la società politica. In tutti questi campi il buon gusto, in sostanza, non c’entra niente  —  anzi: si può sostenere (con appena un pizzico di paradosso) che l’estetica è una questione, innanzi tutto, di “cattivo” gusto; o meglio, è una questione di gusto, punto; al di là dell’opposizione fra “buono” e “cattivo”.   Occorre dunque ribadire quello che si potrebbe chiamare l’imperativo fenomenologico: l’indagine che qui si delinea non può non abbracciare entrambe le parti in causa della Seconda Guerra Mondiale (e di tutti i simili conflitti), scavando nelle rovine della società e dell’anima alla ricerca dell’umano.

 

 

Manhattan                                                                                          9 febbraio 2013

 

Dalla radio, mentre mi sto preparando a uscire, mi investe improvvisamente una musica che mi sembra singolare: una serie di variazioni sulla famosa aria del Don Giovanni mozartiano, “Là ci darem la mano”composta (se ho sentito bene) per pianoforte e orchestra da Frédéric Chopin. La prima impressione è quella di una sproporzione quasi grottesca fra il pre-testo mozartiano e questa composizione che, soprattutto all’inizio e alla fine, mostra una solennità e un’auto-importanza di tipo beethoveniano. (D’altra parte, mi sembra di ricordare una serie di variazioni beethoveniane sul Don Giovanni  che mi parevano più fragili e delicate, più vicine a Mozart, di questo pezzo chopiniano.)

Ma poi mi rendo conto dell’acume con cui Chopin estrae ed esplicita certe implicazioni dell’opera di Mozart. Si potrebbe svolgere (si sarà già fatto certamente) tutta un’analisi del Don

Giovanni (che per me resta la opera per eccellenza) come creazione pre-romantica. Ma lascio tutto ciò ai musicologi; anche perché quello che più mi ha colpito stamattina è stato un pensiero che, sorto direttamente da quella musica, non è però primariamente un pensiero estetico — è un pensiero così intricato che non riuscirò a rendergli giustizia in questa breve.

Il “marriage of two minds” (come dice Shakespeare) fra Lorenzo Da Ponte e Wolfgang Amadeus Mozart non ha solo una grandissima e ovvia importanza per la storia musicale d’Europa, ma anche —  meno ovviamente — una notevole importanza per la storia della poesia moderna (non solo italiana); e, ancor meno ovviamente (me ne sono reso conto soltanto stamattina), un significato propriamente filosofico. (E nulla toglie all’importanza oggettiva di  questo incontro il fatto che nessuno dei due protagonisti sembra esser stato particolarmente consapevole dell’importanza storica di esso: almeno, Da Ponte si riferisce solo marginalmente e in modo casuale a colui che egli — riproducendo la pronuncia tedesca  —  chiama “Mozzart” .)

Riascoltare in nuova veste quell’aria che mi ha sempre attratto di un’opera che ho sempre amato, mi ha portato stamattina a pensare in modo nuovo (anche se è stato solo il lampeggiamento d’un pensiero) alla figura di Don Giovanni  —  mi ha portato in effetti a una più approfondita comprensione di quello che sia l’amor “profano”. Con l’aria “Là ci darem la mano” Don Giovanni si prepara a sedurre una giovane fidanzata (Zerlina) alla vigilia delle di lei nozze  — ed è chiaro allo spettatore che Don Giovanni si prepara anche ad abbandonare la ragazza subito dopo averla sedotta.  È una  piccola storia sordida, diciamolo pure: la storia il cui svolgimento viene non solo interrotto (come nel Don Giovanni), ma contestato, nelle Nozze di Figaro (interessante alternativa dialettica, da parte dello stesso autore e dello stesso librettista)  — il tipo di storia che diventerà uno dei simboli di quell’Ancien Régime che la Rivoluzione francese sta per spazzare via  —  la storia per esempio che dà l’avvio moralmente indignato a quella ricostruzione storico–melodrammatica di un altro ancien régime che sono I promessi sposi.

Ma l’opera di Mozart-Da Ponte riscatta e trasfigura questa piccola storia sordida, e ne fa una storia (una mini-storia, un episodio) d’amore. L’innamoramento di Zerlina (per quanto temporaneo) suona autentico perché  è  autentico: i due artisti hanno giocato le loro carte sull’autenticità, diciamo così, ontologica dell’amore, al di là di ogni strumentalizzazione psicologica o regolamentazione morale. E la riprova di ciò è che anche il momentaneo innamoramento di Don Giovanni suona autentico perché è autentico. Questo è il punto centrale: Don Giovanni è irresistibile perché è lui per primo a non resistere al suo entusiasmo amoroso per Zerlina, come per la cameriera a cui intona una deliziosa serenata. La sua mancanza di discriminazione (descritta nella famosa aria di Leporello) non è soltanto un atteggiamento ironicamente democratico: è anche l’identificazione di un livello profondo della realtà; si può dire che si tratti di una tappa fondamentale nella definizione dell’autonomia dell’eros.

La (relativa) autonomia dell’eros è una delle intuizioni fondamentali dell’arte occidentale, dai Greci in avanti; così come la (relativa) autonomia della politica è una delle intuizioni fondamentali della filosofia in Occidente, dai Greci in avanti. Ma non credo sia azzardato dire che l’approfondimento decisamente moderno di questa autonomia avviene  nei pressi di (all’ombra luminosa di) due grandi città italiane e (nel secondo caso) in un nesso profondo con la Francia. L’autonomia della politica è riscoperta ai margini di Firenze (il suo autore vive in disgrazia politica) nel primo Cinquecento  —  e mi riferisco ovviamente a Niccolò Machiavelli; e l’autonomia dell’eros è riscoperta nel tardo Settecento da due grandi veneziani in esilio, Lorenzo da Ponte (nella citata collaborazione con Mozart) e Giacomo Casanova. Il primo non ha certo bisogno di essere rivalutato come grande memorialista (oltre che come, lo si è appena detto, grande poeta operistico). Il secondo invece ha forse ancora bisogno di essere propriamente rivalutato: la sua postuma Histoire de ma vie  trascende infatti il genere memorialistico per rivelarsi come un vero e proprio romanzo filosofico: ed è tale non in virtù di specifici filosofemi, ma per la sua riscoperta del dominio dell’ eros come dominio (relativamente) autonomo. (Torno così, in modo più meditato, al rapido abbozzo del 5 dicembre 2012.)

Su Machiavelli e l’autonomia della politica esiste una biblioteca; ma forse vale ancora la pena di aggiungere a questa biblioteca un paragrafo o codicillo, fondato sul parallelo con i due veneziani in movimento tra cultura francese e cultura tedesca. In che consistono, essenzialmente, queste riscoperte moderne? Nell’intuizione che tali autonomie si possono veramente provare soltanto nel legame con il fenomeno del male: il male della violenza per la politica, il male del libertinaggio per l’eros. La politica si dimostra autonoma quando rivela la sua dignità anche nel contesto della violenza; l’eros si rivela autonomo quando rivela la sua bellezza anche nel contesto della promiscuità. Il sottotitolo originario del Don Giovanni (Il dissoluto punito)  è la riprova a contrario che si era consapevoli della radicalità di questa intuizione: quel sottotitolo infatti è essenzialmente una foglia di fico. Sì, la storia di Don Giovanni è a un certo livello quella di un dissoluto che alla fine riceve la meritata punizione; ma è anche  e soprattutto la storia di un testimone della bellezza, sempre e comunque, dell’amore. Al di là della rigida teologia  messa in bocca al  Commendatore, il trio settecentesco (Mozart e Da Ponte con  Casanova sullo sfondo) allude a una teologia più controversa e radicale, che pertiene alla nostra modernità: la grazia divina ( realtà ultima  che sta dietro all’amore come dietro al potere) emerge anche dalle rovine del comportamento umano. (Ritorno dunque alle righe del Giorno dell’Epifania, scritte in un momento in cui non pensavo minimamente al Don Giovanni e a opere simili.)

Debbo questo rapido scorcio o concatenazione di pensieri alla riflessione musicale di Chopin, e lo lascio dunque alla (apparente) casualità  del suo stimolo. Ma non posso non notare (perché ciò pertiene alla ‘logica’ del Codex Atlanticus come pensiero itinerante ed esistenziale) che quando ho ascoltato le variazioni chopiniane stavo uscendo di casa per andare a messa, dunque ero già entrato in un ordine di riflessione che in un certo modo mi preparava —  ecco perché questa casualità è forse soltanto apparente  —  a percepire certi nessi.

 

 

Manhattan                                                                              24 febbraio 2013

 

Il pensiero itinerante che qui viene sperimentato (un pensiero che fotografa le riflessioni in tempo reale, nel loro sviluppo quotidiano) deve essere particolarmente attento alle sincronicità. Sull’aereo che mi riportava da Roma a New York alla fine di gennaio avevo letto il lungo saggio o breve libro di Ernst Jünger ‘Sul dolore’ del 1934 (nell’edizione inglese a cura di David C. Durst, New York, Telos Press, 2008)  —  libro che era entrato a far parte di quell’ampliamento della sincronicità di cui avevo parlato nel lemma del Giorno dell’Epifania (tre libri che erano diventati quattro con Marinetti, e adesso diventano cinque con Jünger) : è un ampliamento che mi riporta agli anni horribiles e  alla loro sequela. Dico “alla loro sequela ” pensando a  un passo come questo, dalla prefazione di Russell Berman al libro di Jünger: “Vi è […] una traccia totalitaria nella democrazia del dopoguerra? O per meglio dire: la democrazia del dopoguerra, è completamente immune dalla contaminazione totalitaria? Sostenendo che la descrizione di Jünger mantiene una rilevanza almeno parziale suggeriamo l’idea  che il mondo post-totalitario, il mondo delle democrazie dopo il Nazismo e dopo il Comunismo, non è completamente riuscito a recuperare il retaggio del liberalismo del diciannovesimo secolo” (op. cit., p. XIII).

Dietro la diplomazia e le sfumature accademiche, è un panorama drammatico quello che emerge; e non ultimo tra gli elementi di questa drammaticità è quello che potremmo chiamare il gioco delle miopie  —  gioco subito esemplificato nella prefazione da cui sto citando. Infatti, dopo aver solennemente proclamato che “ogni rifiuto ad esprimersi contro la repressione in qualunque parte del mondo indebolisce la causa della solidarietà in tutto il mondo” (tipica frase risonante che piace a chi per esempio scrive i discorsi del presidente Obama), Berman punta il dito contro … l’Iran! che sarebbe difficile definire come “democrazia del dopoguerra” …  Il fatto è che la repressione comincia a casa propria, ed è qui che ci vuole un po’ di coraggio  … di quale casa sto parlando? Beh, c’è un elemento repressivo che persiste nella democrazia italiana, ma non si può definirlo totalitario. È probabile che il disastro degli anni horribiles  abbia definitivamente vaccinato l’Italia contro il totalitarismo; in effetti l’Italia ha sostituito l’ideologia del totalitarismo con l’ideologia dell’inefficientismo. (Scrivo queste righe nel primo giorno delle elezioni : che in Italia occupano, inefficientemente, due giorni invece del giorno unico che è normale nelle democrazie sviluppate). Comunque, la contaminazione o contagio totalitario è particolarmente pericolosa nei paesi grandi e potenti, come quello in cui attualmente vivo.

 

 

Manhattan                                                                                          21 aprile 2013

 

“La Repubblica, quella che si dice democratica e fondata sul lavoro, ieri è morta” scrive Beppe Grillo nel suo blog, a proposito del secondo settennato appioppato a colui che è stato già da sette anni presidente (cosa mai vista nella storia della repubblica italiana). E ieri  lo stesso Grillo aveva scritto: “Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. Oggi, 20 aprile 2013, è uno di quelli. È in atto un colpo di Stato”. Ma no, ma che iperboli! Tutt’al più si tratta di quello che il riduzionismo italiano chiamerebbe colpettino. (Già il 30 dicembre dell’anno scorso parlavo di “colpettini di stato”.)

Comunque, ben vengano le iperboli, che servono a scuotere un po’ l’atmosfera; e ben venga d’altra parte il lavorìo paziente delle vecchie volpi politiche. Di fronte a questi divergenti o addirittura conflittuali linguaggi, e atti, e simboli della politica (penso anche a quella che il grande critico americano Kenneth Burke chiama, nel suo libro La filosofia della forma letteraria, “azione simbolica”), ogni singolo prenderà la sua posizione; e chi coltiva la sub-politica guarderà a tutto ciò con rispettosa attenzione  —   rifiutando ogni lealismo partitico e ideologico.

Manhattan                                                                              21 aprile 2013

(più tardi)

A volte una frase, emergente da un contesto non particolarmente profondo e solenne, colpisce più di tutta una pagina di filosofia … Avevo tenuto  da parte un giornale (“The New York Times” del 19 aprile scorso) per leggere le recensioni teatrali, e una — a proposito di un dramma rispetto al quale il recensore ha un atteggiamento critico;  mi colpisce; nel dramma in questione, secondo il critico, “nobody exudes a sense of, or even a sense of hunger for, power”.

Ho dovuto leggere questa frase un paio di volte, per capirla  —  e questa non vuole affatto essere una critica. Una frase che dev’essere riletta è generalmente una frase interessante —  fenomeno che capita anche troppo raramente. (Uno scorre svelto un articolo di giornale, registra distrattamente una frase, poi si rende conto che non l’ha veramente capita, e compie quello che qui idiomaticamente si chiama un “double take”, cioè fa una pausa, torna sulla frase, la rilegge lentamente: quante frasi in un quotidiano, italiano o americano che sia, richiedono un “double take”? Quasi nessuna.) Dunque, in una certa composizione teatrale nessuno dei personaggi sembra emanare “il senso del, o anche soltanto il senso della fame del, potere”. In quel contesto si trattava di una battuta ironica, ma ne resta un pensiero significativo; che mi aiuta a comprendere (dunque ad esprimere) meglio quello che tentavo di dire il 5 diembre dell’anno scorso, dove (chiedo scusa per l’autocitazione) scrivevo che: “Il meno che si possa dire di un intellettuale che non senta e studi il fascino del potere è che non capirà mai Balzac”.

Quasi mai un intellettuale possiede il senso del potere. Il massimo cui un intellettuale può giungere è sviluppare il senso della fame di potere; l’intellettuale sente il potere di riflesso. Se avesse il senso del potere, potrebbe diventare un uomo di potere  — cosa che gli intellettuali (quasi) mai diventano. (Una delle poche e parziali eccezioni è stato, per un brevissimo periodo della sua vita, Gabriele d’Annunzio.) Ma per l’intellettuale è quasi una necessità professionale sviluppare il senso di quello che è il senso del potere; soltanto così egli/essa può compiere il gesto in cui ha la possibilità di riuscire: cioè analizzare (esempio: Machiavelli) o raffigurare (esempio: Shakespeare) il potere.

Paolo Valesio

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ma come profumerebbe, la rosa?

 

            “Che cosa c’è  di tanto importante in un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa avrebbe un dolce profumo anche sotto qualunque altro nome”, esclama in una famosa scena shakespeariana Giulietta Capuleti,  la quale è stata informata da poco che il cognome dell’uomo di cui si è innamorata in colpo di fulmine è Romeo Montecchi. Ma i due ragazzi, a questo punto, sono ancora ingenui.  Presto essi scopriranno che le rose, a Verona come  altrove, non profumano tutte allo stesso modo; sperimenteranno sulla loro pelle  qualcosa di simile al fenomeno che alcuni qui hanno cominciato a chiamare “infiltrazione semantica”  —    cioè in parole povere: un dato termine sviluppa un significato, o per lo meno una connotazione emotiva, opposta a quella che possedeva originariamente. E spesso  le parole-chiave  di una data epoca non sono il riflesso dei movimenti sociali,  ma le creatrici di tali movimenti.

Il preambolo era necessario  per chiarire l’enorme importanza della posta in gioco: nel momento in cui i gruppi di pressione sull’opinione pubblica americana  e non solo sono riusciti a imporre la parola “gay” e l’espressione “uguaglianza matrimoniale” (marriage equality) come gli unici modi civilmente e civicamente accettabili di parlare della questione  che si trova  all’esame della Corte Suprema statunitense  — in questo momento essi hanno visto (qualunque sarà la decisione della  Corte) la vittoria a portata di mano. Una delle spiritose opinioniste del New York Times ha sbeffeggiato recentemente  quei giudici che osano ancora impiegare la parola “omosessuale” ; credo che questo sintetizzi bene  la gravità della situazione attuale: una situazione di “pericolo chiaro e incombente”  —  clear and present danger.

Il  pericolo in questione non riguarda soltanto il dibattito sul matrimonio: ciò  che è pericolante nella società statunitense contemporanea è niente meno che la libertà di espressione. E qui è importante intendersi bene (soprattutto perché i gruppi di pressione sono anche troppo pronti ad accusare di paranoia chiunque tenti di sottrarsi  alla loro imposizione di discorso): il problema non è  l’uso della parola “gay” ; il problema è la tendenza  a demonizzare  coloro a cui non piace usarla.  Io personalmente  sono d’accordo con quell’opinionista che qualche tempo fa, su un quotidiano  italiano, osservava che a lui quella parola sembrava triste   —  e  in questo potrò anche sbagliarmi ; ma  quello che è grave è che, se fossi un giornalista americano, cartaceo o radiotelevisivo, ed enunciassi questa osservazione, rischierei di perdere il posto.

Quanto all’ “uguaglianza matrimoniale”, quella che è stata realizzata è una manovra che,  naturalmente con altri esempi,  Aristotele  già chiarisce nella sua Retorica: in ogni dibattito quello che conta prima di tutto è come si spostano i termini della questione. Nel momento in cui questo tema è stato enunziato in termini legalistici e pragmatistici, coloro che insistono  su una definizione di valori si sono trovati già  all’orlo della sconfitta  —  soprattutto in un paese come questo, con la sua forte tendenza anti-intellettuale. Se parlo di matrimonio  e previdenza sociale, ottengo subito un’attenzione simpatetica; se invece tento di attirare l’attenzione sulla definizione del concetto, rischio che i miei interlocutori comincino a guardare l’orologio.

Per marcare bene a che punto siamo arrivati debbo ricorrere ancora una volta a un esempio inglese (come altrimenti dare un’idea di un’infiltrazione semantica?). Chi mantiene una posizione critica verso l’idea del matrimonio fra persone dello stesso sesso ovvero genere, qui viene stigmatizzato come bigot   —   che non è affatto la stessa cosa che essere chiamato bigotto  in Italia. Il bigotto italiano, come sappiamo,  è colui che ostenta religiosità dedicandosi soprattutto alle pratiche esteriori  del culto. Il bigot  anglosassone invece è qualcosa di ben più grave: è una persona con ‘forti pregiudizi, soprattutto su questioni religiose, razziali e politiche, e intollerante di coloro le cui opinioni differiscono dalla sua’. Insomma: il bigotto italiano rischia di essere preso in giro, mentre il bigot americano rischia di perdere un’elezione, o un impiego. Infiltrazione semantica, appunto: il termine che originariamente designa un atteggiamento intollerante viene oggi usato come arma dagli intolleranti.

In una  recensione, apparsa recentemente  sul settimanale The New Yorker, del libro di uno storico inglese su Galileo si citava con approvazione una frase con cui quello storico caratterizzava l’Inquisizione italiana (in contrasto con quella spagnola): “Terrorismo di sfondo, ma a livello moderato”. Non ho la competenza  per pronunciarmi sulla pertinenza di questa definizione per l’Italia dei tempi di Galileo. Ma dopo alcuni decenni di soggiorno negli Stati Uniti mi sento, pur con tutti i miei limiti, abbastanza socialmente competente per dire che in questi ultimi anni la situazione si è fatta in molti campi così pesante che si può  parlare dell’emersione  di un terrorismo intellettuale e politico di sfondo, a livello moderato.  La democrazia americana è ancora abbastanza forte per controllare questa tendenza con la contro-tendenza delle armi “bianche”: la pazienza e il dialogo; ma bisogna collaborare.

 

Paolo Valesio

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