Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il 4 ottobre 2017 col titolo “Panino, birra e tante armi: dentro la “normalità” che cova la violenza”.
NEVADA, NEVADA
È cominciato il bla-bla-bla sulla follia dell’uomo solitario congiunta alla follia di massa delle straripanti armi da fuoco, e sulla fragilità e le contraddizioni dell’impero (anche se l’impero non esiste più). E va bene così – dopo tutto, sono le frasi che ci rassicurano su come (non) va il mondo, quando scorriamo il giornale al momento del caffè e del cornetto. Ma proviamo a fare un piccolo passo di lato, e guardare per un istante uno dei tanti angoli di quello sfaccettato oggetto che è ogni evento o cosa nel mondo – e già: di quale oggetto stiamo parlando?
Ah, il Nevada – Nevada come Sierra Nevada – Nevada come “nevicata” – Nevada il cui più grande e meglio conosciuto centro urbano è Las Vegas: las vegas ovvero “le pianure” – in questi Stati diciamo così Uniti in cui l’inglese, lingua imperiale qui e in tutto il mondo, si rivela a volte essere uno strato abbastanza sottile che copre lingue più antiche : come lo spagnolo, e sotto lo spagnolo le lingue dei nativi. Mojave, per esempio, che dà nome al deserto fra California e Nevada – una di quelle distese, come il deserto di Sonora più a sud, dove l’aridità diventa sublime e anche terribile (per le migrazioni disperate): sono i volti quasi-visibili di Dio nel Sud-Ovest americo / messicano.
Siamo arrivati (per via traversa) alla notoria “Striscia” tutt’altro che pura come neve (a meno che non si pensi alle strisce di “neve” che non è tanto difficile procurarsi a Las Vegas): lo Strip (soprannome di Las Vegas Boulevard) che inevitabilmente fa venire in mente anche lo strip tease – insomma, lo Strip della strage. Visto che certamente sta per cominciare il turismo stragistico (come se il turismo di Las Vegas non fosse già abbastanza pacchiano) che andrà a fotografare le tracce-ricordo del macello, qui si vorrebbe suggerire un modo molto economico, un modo da studente o da osservatore vagabondo, per visitare Las Vegas.
Visitarla di carriera (più a lungo, non vale la pena) dopo ore e ore di viaggio in vecchia automobile, possibilmente intorno alle quattro del mattino. Così si è troppo stanchi per giocare seriamente d’azzardo e ci si limita a perdere qualche decina di dollari con le macchine a gettone – i cosiddetti “banditi-con-un-braccio-solo”, braccio che è poi la levetta che si abbassa sperando in un pioggia di monete – quando i ristoranti sono ormai chiusi, dunque ci si arrangia con un panino-e-birra. Senza trascurare di dare un’occhiata ai luoghi più interessanti della città: le cappelline simil-cattoliche o simil-protestanti dove c’è sempre qualcuno pronto a celebrare un rapidissimo matrimonio nuovo, magari sulla base di documenti di divorzio confezionati alla svelta (è la vita che si stabilizza, a fianco dell’esistenza destabilizzante negli hotel e nei casinò). E infine ci si abbatte sul materasso in qualche motel di terz’ordine (ci sono anche quelli, all’ombra degli albergoni mostruosi), in compagnia o no: si è comunque troppo stanchi per qualunque alternativa al sonno, in preparazione delle lunghe ore di viaggio che cominceranno all’alba. E poi, è passato il tempo delle comitive pittoresche descritte da Jack Kerouac: in questi viaggi attraverso il paese, le coppie servono essenzialmente a condividere le ore di guida e le spese della benzina.
Vabbè, ma che c’entra tutto ciò, con il massacro ancora fresco? C’entra, perché, primo: è in questi angoli di vita americana (anche gli angoletti carini, come pare sia la casetta in campagna dove abitava lo sparatore) che emergono le idee più pazze – siano esse poetiche (come quelle del citato Kerouac, e di tanti altri sognatori / narratori americani) o violente. Secondo: queste, e simili, quotidianità chiariscono come, nell’Occidente contemporaneo (in Europa non meno che negli Stati Uniti), le stragi rientrino ormai da tempo nella strategia istintiva della popolazione: l’assorbimento delle perdite. Sostanzialmente: ci si rassegna ai massacri localizzati di civili da parte dei vari terroristi, fino a che la quantità delle vittime non diventi tale da sconvolgere profondamente il ritmo della vita individuale, e il ritmo degli affari (commercio, turismo). È una situazione che si può descrivere con il topos del “bisogna continuare a vivere normalmente” (come prova della superiorità dell’Occidente liberale, e via bla-bla-blando), oppure come una forma di tragicità grigia contemporanea.
Lasciamo questa scelta agli opinionisti di professione; qui si è voluto soltanto descrivere quello che una volta si chiamava uno squarcio di realtà. Distinguere fra massacri piccoli e grandi, fra quantità accettabili e quantità non accettabili di morti: tutto ciò è orribile – ma reale; è lo squarcio da cui emerge una realtà dentro la realtà. Ciò che è orribile, infatti, non è tanto il fatto oggettivo della violenza quanto il fatto soggettivo (ma fatto anch’esso, e reale quanto l’altro) della non-reazione – della rassegnazione alla violenza. Come reagire a questa non-reazione? È presto per dirlo: ma si può cominciare guardando dritto in faccia questo aspetto terribile della nostra povera – veramente povera – umanità.
Paolo Valesio