Archivi del mese: settembre 2016

E PERCHÉ NO?

Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “Ilsussidiario.net” il 30 settembre 2016 col titolo “CLINTON vs TRUMP/ Il dilemma che può bloccare (o far vincere) “The Donald”

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Trump vs. Clinton

E PERCHÉ NO?

Ormai la notizia è vecchia: il (quasi-)consenso dei media, con qualche interessante eccezione, in Italia e in Usa, è che Shrillary – pardon, Hillary – Clinton (shrill = ‘stridulo’) abbia (quasi-)vinto contro Donald Trump il primo dibattito di queste elezioni americane. Insomma, la “Insopportabile” avrebbe avuto la meglio sull’“Impresentabile” (prendo a prestito le caratterizzazioni che una brillante giornalista aveva usato anni or sono per designare rispettivamente i membri più vociferanti del partito democratico e di quello repubblicano). Ma – ammesso e non concesso che questa percezione di vittoria sia esatta, e ammesso e non concesso che l’idea di “vincere” un dibattito abbia senso – forse le questioni su cui riflettere sono differenti.

Prima di tutto: la Clinton non avrebbe potuto non essere dichiarata vincitrice (a meno che non fosse svenuta sul palco). Troppo forti infatti sono i reciproci condizionamenti politico-finanziari (già accennati sul “Sussidiario”) e politico-mediatici; a proposito dei secondi, va ricordato che, in un paese in larga misura post-coloniale come lo è l’Italia dal 1945, il potere della retorica dell’impero, schierata a favore della sua imperiale funzionaria, è soverchiante. Trump è il nuovo che avanza, oltre tutto in modo tumultuoso e poco composto, mentre la Clinton è l’usato sicuro: come meravigliarsi che quasi tutti i rappresentanti dei media si siano messi a whistle in the dark (‘fischiettare al buio’, per farsi coraggio), volendo proiettare a ogni costo un’immagine di stabilità, dopo lo scossone del “Brexit” e in attesa di altri scossoni referendari ed elettorali?

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Lo scossone de del “Brexit”

Se si considerano plausibili tali condizionamenti, si capisce come sia poco fondata la critica (già apparsa peraltro in alcuni quotidiani italiani) secondo cui questi dibattiti non servirebbero a niente. Il punto infatti non è se servano o no a guadagnare direttamente voti: i dibattiti sono simboli potenti – e i simboli sono la materia prima della finanza (nonostante la sua apparenza di scienza esatta) e della politica (nonostante la sua illusione di razionalità).

Ma non basta: i dibattiti contano, al di là di ogni loro funzione, per il solo fatto di esistere. Vedere per ben tre serate i candidati a una posizione di vero, grande potere discutere fra loro senza copione per novanta minuti, con stretti (e rispettati) limiti per ogni successivo intervento, di fronte a milioni e milioni di cittadini, significa vedere la democrazia in azione; e gli intellettuali italiani supercritici verso i dibattiti americani dovrebbero prima di tutto riconoscere che uno degli aspetti in cui l’Italia si rivela un paese a democrazia limitata è l’impossibilità di assistere a confronti di questo tipo – la cui lunga durata è già un fattore qualitativo (per cui vale la pena di sopportare qualche sbadiglio). Insomma, questi dibattiti appartengono agli ultimi resti di democrazia nel mondo occidentale. (Che poi il potere trovi modo di neutralizzare gli effetti di questi dialoghi, e continui a lavorare essenzialmente nelle segrete stanze, è un’altra questione.)

Detto ciò (e fermo restando che il risultato presidenziale è ancora incerto), non si può non sottolineare – alcuni hanno già cominciato a farlo – il dilemma che rischia di schiacciare Donald Trump. Se continua a presentarsi nel modo, che direi ansiosamente composto, dell’altra sera – proiettando l’immagine del ‘Maestro Costruttore’ (Master Builder) – rischia di perdere la base popolare che l’ha proiettato in avanti durante il corso dell’anno passato, ma può garantirsi il rispetto di un ulteriore numero di produttori decisi e decisivi, essenziali per lo sviluppo del paese. (Ho prelevato un’espressione che mi sembra appropriata: Master Builder è il titolo inglese – preferibile a quello letterale italiano, Il costruttore Solness – del grande dramma di Henrik Ibsen del 1892.)

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Il “maestro costruttore”

Se Trump invece torna all’espressionismo scatenato delle sue origini – e insomma ritrova il coraggio, o la sfrontatezza, di presentarsi come un palazzinaro d’assalto, non privo d’intelligenza e con un forte senso dell’umorismo – allora recupera le vecchie lealtà ma rischia di perdere i disertori dall’esercito della correttezza politica (comprese le disertore dal femminismo) che aveva saputo nel frattempo conquistarsi. La Clinton non ha questo dilemma, dunque è ancora la più vicina alla presidenza: le basta infatti continuare a recitare le sue liste di cifre e a godere delle sue rendite ideologiche.

Ma un dibattito è fatto anche di linguaggio, non solo di contenuti – e non bisogna mai dimenticare la grande creatività neologistica della lingua inglese (alla barba del purismo): come quando Trump ha usato un paio di volte l’avverbio bigly per dire ‘alla grande’. Nel complesso, però, debbo confessare che mi sono mancati certi graffi. Ho contato, se non sbaglio, solo due momenti minimamente vivaci. Quando la Clinton ha detto (lodevolmente) “Mi scuso” a proposito dei famosi messaggi elettronici sviati, Trump ha interloquito: “E qui hai detto giusto”; e nel momento in cui la candidata ha tentato una battuta (incautamente, in presenza di un artista in questo genere) esclamando con un sorriso: “Di questo passo, finirò con l’essere accusata di tutto quello che è andato storto!”, Trump non ha perso un secondo per rilanciare con faccia di bronzo: “E perché no?”. È stato l’unico momento (era ora!) in cui il pubblico è scoppiato a ridere.

Paolo Valesio
Bologna /New York

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Che cosa resta

Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il 15 settembre 2016 col titolo “LETTURE/Le macerie di New York e la strategia del doppio binario”

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CHE COSA RESTA

Che cosa è rimasto a “Ground Zero” nella punta meridionale di Manhattan che richieda ancora un’attenzione internazionale, dopo quindici anni di cerimonie e di cerimoniosità? Soprattutto, forse, il silenzio – e non solo nella ricorrenza fatidica dell’undici settembre, ma anche (va sottolineato) in ogni giorno in cui capiti di visitare quel luogo. Il silenzio come senso di quella dimensione altra che i luoghi della grande morte sempre rivelano, non è un fenomeno che si possa dare per scontato: mantenere il silenzio richiede un alto senso di dignità comunitaria – insomma, un senso di civiltà; e su questo punto gli Stati Uniti ne danno prova. (Non così, troppo spesso, in Italia: basti pensare alla gazzarra pseudo-politica che a ogni agosto contamina la commemorazione della strage alla stazione di Bologna.)

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La strage di Bologna

Con ciò non si vuol certo suggerire che esistano paesi civili e paesi incivili: l’esperienza della vita rivela che ogni paese ha i suoi punti forti e quelli deboli, in fatto di civiltà. In quella mattinata dell’undici settembre appena trascorsa fra le ex-rovine delle Torri Gemelle, da un gruppetto di forse ex-soldati si è sentito a un certo punto risuonare l’urlo “USA! USA!”. Scritto così, non fa impressione; ma chi nel corso degli anni l’ha ascoltato nella sua sonorità effettiva : “Yu Es Ei! Yu Es Ei!”, non può dimenticarlo. E’ il grido selvaggio che ha accompagnato tante invasioni, quando dopo avere urlato “Yu Es Ei! Yu Es Ei!”, nei primi anni dopo l’ undici settembre, si gridava “Asfalteremo l’Iraq e ne faremo un’area di parcheggio!”; e purtroppo questa minaccia è stata in larga misura mantenuta.

Del resto, anche il silenzio può essere il mezzo in cui trasmettere messaggi sinistri. Come quello, raggelante, espresso dalla scritta sulla maglietta nera indossata da uno dei presenti alla cerimonia di domenica, ritto in silenzio come tutti noialtri: “Attenzione, state indietro di 100 metri o vi spariamo” – e la frase era seguita dalla sua trascrizione stampata in arabo. Costui non aveva bisogno di dire una sola parola per presentarsi orgogliosamente, con questo suo souvenir, come uno dei conquistatori; e in effetti ci faceva capire senza tante dissertazioni che cosa significa vivere sotto un esercito di occupazione – l’esercito scaturito dalle macerie delle Torri Gemelle. Dopo l’undici settembre di un quindicennio or sono è scattata in USA un’abile strategia del doppio binario: il complesso militare-industriale ha scatenato la vendetta, distruggendo un paio di nazioni; mentre l’apparato governativo- propagandistico mascherava questa vendetta sotto una retorica dell’inclusività, del multiculturalismo, dell’anti-discriminazione ecc. ecc.

E cosi, fra i due partiti in lotta elettorale il più belligerante è quello che affila le sue armi sotto il mantello delle parole più “corrette”. Non è detto che, come alcuni dicono, l’impero nordamericano si rivelerà il più breve nella storia degli imperi moderni; ma quello che è chiaro è che si tratta dell’impero più raffinatamente ipocrita – che come tale ci avvolge in una rete di complicità.

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September 11 Memorial

Per sfuggire all’atmosfera di confusione etica e di stanchezza dopo anni di reiterata violenza che emanava da “Ground Zero” in quel giorno, bisognava rifugiarsi ai suoi margini: come nel giardinetto discretamente annidato fra gli angoli del quartiere di Wall Street – il giardinetto donato dalla regina Elisabetta in memoria di quelli, tra i caduti nell’attacco alle Torri Gemelle, che erano originari del Regno Unito e del suo Commonwealth – dove abbiamo ascoltato il suono, insieme rude ed elegiaco, delle cornamuse; o nel cimitero-giardino di Trinity Church scampata al disastro, con le sue semplicissime lapidi che risalgono ai tempi in cui gli Stati Uniti stavano nascendo come tali. E almeno con il suo passato settecentesco, questo paese ha fatto la sua pace.

Paolo Valesio
Bologna / New York

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L’OSSO DELLA LINGUA

Meet The Press

David Brooks, il più colto e civile tra i saggisti del “New York Times”

L’OSSO DELLA LINGUA

Un opinionista del “New York Times” [2/9/16] scrive: “Una volta, se ben rammento, avevamo divergenze che erano filosofiche e ideologiche. Una volta, la politica consisteva di dibattiti fra i progressisti e i conservatori, fra diverse concezioni della natura del governo, diverse visioni sui valori dell’America e sul suo ruolo nel mondo. Ma pare che quest’anno tutto sia stato ridotto all’osso. Il discorso politico si divide secondo linee rozze – linee di razza e di classe”. Ora, con tutto il rispetto per il pubblicista appena citato (David Brooks, il più colto e civile tra i saggisti del quotidiano di New York), va detto che questa immagine nostalgica ha poco o nulla a che fare con la realtà della politica americana. “Rozze” o no, le linee di frattura del dibattito politico americano sono sempre state le razze (riusciranno mai, gli Stati Uniti, a uscire completamente dall’ombra del loro passato schiavista?) e le classi – tanto più presenti nella vita quotidiana quanto più negate nelle omelie sul “sogno americano” e il cosiddetto “crogiuolo americano”, il melting pot che avrebbe dovuto fondere armoniosamente fra di loro tutte le classi e le razze nel paese.

È vero però che quest’anno è emerso qualcosa di nuovo: qualcuno ha cominciato a dire a gran voce che l’imperatore è nudo. Io adesso non ricordo bene che cosa sia successo al ragazzino di quella favola; ma rievocando oggi quell’apologo mi vien da pensare che i pretoriani nel corteo, allora, debbono essersi guardati di sottecchi, cercando di decidere se sollevare il ragazzotto e proclamarlo imperatore, o se invece prenderlo da parte e massacrarlo di botte. Sto parlando, evidentemente, di Donald Trump – per dire che la novità di quest’anno è l’accresciuta virulenza del linguaggio, da entrambe le parti. (Un altro opinionista del “New York Times”, meno raffinato di Brooks, conclude un suo recente articolo riferendosi ai bianchi cristiani come a “quella gente che il signor Trump ha portato allo scoperto” – manco si trattasse di esseri inferiori acquattati fra le tenebre).

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Il passato schiavista che perseguita il paese

Dagli e dagli, la virulenza linguistica può portare alla violenza (“la lingua non ha l’osso, ma può rompere il dosso”, dice un proverbio; e, se vogliamo un linguaggio più serio, pensiamo all’Epistola di Giacomo 3, 5-6). È una violenza che minaccia prima di tutto i candidati: Trump deve stare attento allo “stato parallelo” demo-repubblicano e al suo potenziale di provocare incidenti di percorso (al limite, pensiamo ai Kennedy), mentre invece la Clinton dovrebbe fare attenzione agli scatti di qualche folle isolato (tipo sparatoria a Ronald Reagan). Ma non si tratta solo dei candidati: tutti noi qui sentiamo la violenza che (come detto) può nascere dalla virulenza verbale. È anche per questo – per disinnescare la situazione esplosiva – che sono in aumento le dichiarazioni astensionistiche; o le intenzioni di voto a favore del Partito Libertario, finora virtualmente invisibile ma che adesso potrebbe giocare il ruolo del guastafeste; o le dichiarazioni che sembrano (soltanto) poetiche ma sono (anche) realistiche, come quella di una persona la quale mi scrive che ci dovrebbe essere un altro emendamento della Costituzione americana, oltre a quello famoso che copre la libertà di parola: un emendamento sulla libertà di silenzio. Beh, almeno il caldo agostano è finito, e speriamo nelle pacificanti brezze di settembre.

Paolo Valesio
New York

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