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Il Testimone e l’Idiota

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Il Testimone e l’Idiota

Poema per un dialogo

  

I testi che seguono sono tratti da un manoscritto in corso d’opera. Il poema è un dialogo indiretto che, a questo stadio della scrittura, si svolge tra due protagonisti maschili e un’invisibile Voce.

I personaggi mi sono apparsi lentamente, emergendo da una sorta di nebbia. E da quella nebbia sono venuti fuori così incerti e così timidamente, che all’inizio sono stati garbatamente respinti; ma hanno insistito, con parole sempre più chiaramente udibili e con caratteristiche sempre più riconoscibili, fino a rendere abituale e in effetti indispensabile la loro presenza.

 

I personaggi:

La Voce (emana di solito dal soffitto, o dal pavimento o dalle pareti laterali di diverse stanze)

Il Testimone (fra i 35 e i 40 anni: italiano, piuttosto austero e intenso)

L’Idiota (sui 35 anni: italiano, alquanto indifeso e poroso; portato a esaltarsi in modo che potrebbe apparire ingenuo)

 

* * *

 

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I Can’t Believe It (Dream Poem)

 

L’Idiota ha incontrato san Francesco
ai giardinetti di piazza Cavour:
stava seduto sopra una panchina
nello stile turistico della Piazza San Marco
con le braccia coperte di piccioni.
L’Idiota si è accostato mettendosi la maschera
di un viso rispettoso
(in realtà non sopporta i piccioni e sta dalla parte dei falchetti).

Francesco gli sorride e poi gli fa:
“Non hai idea di come siano stupidi”.
Poi vedendo la bolla interrogante (‘Allora perché?’)
formarsi sulle labbra dell’Idiota, gli dice:
“La carità ha valore soprattutto
quando è un pochino idiota – altrimenti
rischia di essere nice”.

Nice?!’,
pensa tra sé l’Idiota allontanandosi,
‘ha proprio detto nice? Non posso crederci’.

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New Worlds Are Always Opening Up

When We Are Least Expecting Them

 

Dice bene l’amico americano (o l’amica – non c’è firma)
che invia una cartolina da Miami (che l’Idiota non ha mai visitato)
dove c’è solamente questa frase:
“Nuovi mondi stanno sempre aprendo quando non loro ci aspettiamo”
Lo dice proprio bene, pensa l’Idiota mentre lo rilegge.
Perché questo aforisma roseo e modesto,
e un poco rammollito dal senso comune,
che l’amico fantasma (o l’amica che resterà per sempre
misteriosa) deve aver spinto dalla propria lingua
dentro l’italiano di un traduttore automatico,
quando esce così rimescolato
e discombobulato,
ha già grazie a questo acquistato
una scintilla elettrica di originalità:
così l’Idiota legge la sua materna lingua italiana
riscoperta in forma un poco strana –
come un corpo tutt’altro che materno
che si riveli improvvido e improvviso
nel fru-fru delle vesti arrovesciate e nell’imminente
incresparsi delle lenzuola.

 

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L’esercito infinito degli estranei

 

La grande solitudine in cui vive
trasforma il Testimone in fantasma.
Una volta lui era un fantasma cattivo:
non verso gli altri ma verso di sé –
un captivus della sua ombra e colore oscuro;
la faccia della sua melancolia era una taciturna amaritudine.
Ma adesso il Testimone sta mutandosi
in quasi-buono fantasma: melancolia placata
e sfociata
in elegia di vita.
Di fronte all’infinito esercito di estranei
che sciama lungo le avenues
il Testimone è ormai libero da timore
e da (con punta d’invidia) disagio.
Semplicemente, è curioso:
con un sorriso lieve e la fronte spianata, camminando o seduto su una panca.
Venerabili padri hanno detto:
Curiositas è peccato. Ma lui la sente
come porta del bello e timido primo gradino alla caritas. 

Bologna (verso New York)

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Ricordi 1

 

L’Idiota sorride ai ricordi:
un largo, con denti danneggiati,
sorriso accoglitore e semi-felice
per il semplice fatto crudo e nudo che sono esistiti e che lui
è ancora lì a camminarli.
Gli appaiono, a tratti e balenii,
come i surrogati
della Resurrezione.

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Ricordi 2

 

Il Testimone, quando un ricordo lo colpisce diretto, geme
(breve lamento, e subito
si volta in giro per verificare che non l’abbiano udito):
è il fisico dolore,
quello dello stomaco;
per l’occasione perduta, l’instante non pienamente vissuto
dunque offeso, sacrificato
nel suo potere di essere
(ma il gemito è forse riscattato come seme di pentimento).

Treno New Haven-New York

 

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All’erta, Testimone

 

Sente a volte fulminee
incursioni di grazia
e ne gioisce a mente, o a mezza voce.
Ma sempre deve stare cauto, sobrio:
può essere che in quello stesso istante
il Nemico si sia già insinuato
nella rocca dell’anima.

 

Ottava del riguardo

 

Il Testimone attesta anche gli sguardi –
egli li squadra e sguarda: i pesanti (come il suo),
ma anche i leggeri.
Quelli che gravano di lato
mal-velando di palpebra un passato
dissoluto con il suo corteo assassino.
E gli altri – gli altri, i lievi
di fronte ai quali egli abbassa gli occhi.

 

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Q&A

(Domande e risposte)

 

È più grande del nostro cuore
(Gv, 3, 20)

L’Idiota pone spesso
la questione a sé stesso:
Come può essere, il cuore,
colmo gonfio – e spezzato al tempo stesso?
La risposta preliminare
lo porta solamente al limitare
della risposta piena di cui ancora ha sete.
Ma intanto egli ripete tra sé e sé,
cantilenando, una pre-risposta
che racchiude un punto di domanda
e il cui centro è il desiderio:

“Il desiderio è un’onda – il mare sotto che rigonfia i laghi –
ma è anche una spada che squarcia.
La spada del desiderio taglia l’onda del desiderio
l’onda travolge la spada
e nel gioco alla morra della vita
il cuore può contraddirsi ma il desiderio no.

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Quasi

 

Il Testimone mormora a se stesso
(come fa quasi ogni mattina):
“Ti amo …
non abbastanza”, e pensa a sbalzi
nel cammino-capriccio della vita:
Quanti morti ci vogliono
per fare un vivo?
Quanti vivi ci vogliono
per fare un credente?

 

 

Fatica

 

Nella gioia il Testimone non riesce –
e neppure nella sofferenza –
a trovare l’amore per il prossimo;
ma nella fatica soltanto,
quando scorge nel volto accanto a lui
le piccole tracce
del logorìo:
allora sente un piccolo ma vero
riscaldamento di cuore.

Manhattan, fermata della Cinquantanovesima

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Sonetto caudato del voler-bene

 

Mt, 22-37

“Ti voglio bene” mormora
il Testimone ogni tanto
“come un pezzo del mio cuore, un pezzo
della mia mente
e più della metà della mia anima”.

Non è lo stesso che amare
ma è meglio del deserto.
Dove lo trova lui l’amore,
nelle strade e le stanze
della sua vita?
È soltanto il ricordo di un’iperbole
che è poi sfociata
nell’auto-convinzione di una maschera?

Forse è così; ma in certe esaltazioni
si lascia andare e sente qualche cosa
che è prossima a lui e congeniale
come e più della vena giugulare.

 

 

Voceluce

 

Voce
        (che si presenta come luce direttamente, senza l’intermedio di pareti o soffitto o pavimento):

Attento, Testimone:
quando tu adesso senti
come questi luminosi
giorni di giugno nella città cupa
siano i primi della primavera
che negli scorsi mesi si è assentata –
quando tu scorgi questo
confine spostato
potresti già aver visto
la tua frontiera ultima
che ti viene incontro.

Testimone
           (tace).

 

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Uomo concavo

 

Per T. S. Eliot

Voce

We are the hollow men
We are the stuffed men…

Testimone

Oh, uffa, quanta degnazione in questa immagine sprezzante!
Vuoto è una parola trasparente
che ha un affaccio sul nulla quotidiano
ma ci sono tante creature concave
che ascoltano che si raccolgono e accolgono
che servono a qualcosa.
Si è ricchi solo delle cose altrui.

Voce

Dunque,
siamo tutti ladri.

Tombolo di Giannella
(Orbetello)

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Gli ereditieri

 

Mt 5, 4

Voce

I miti erediteranno la terra

 

Testimone

La mitezza è una mietitudine:
quando tutte le messi del mondo
verranno recise blandamente e biondamente
e la terra sarà tranquillizzata e i miti
(che sono tutt’altro che mitici)
la copriranno di un sottile manto;
allora il mondo giungerà al suo termine
senza bang e senza whimper
ma con la non-apocalittica
naturalezza del riposo.

 

Paolo Valesio

 

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UNA MODESTA PROPOSTA

Presento qui la versione originaria del mio articolo, pubblicato sul quotidiano online “IlSussidiario.net” del 23.04.2020, con il titolo redazionale, “L’aiuto che filosofia e poesia possono dare a comitati e task force”.
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Il comitato di esperti, agli ordini

UNA MODESTA PROPOSTA

Si parla di Comitati o Commissioni di esperti (in italiano, “Task Force”) per gestire l’uscita dall’emergenza del virus: esperti di psicologia, comunicazione, economia, diritto del lavoro, statistica, sociologia, salute mentale, giurisprudenza, contabilità, banche, industria e chi più ne ha più ne metta. Tanto vale allora — si potrebbe pensare — auspicare la presenza, accanto a questi uomini e donne di scienza e di affari, anche di donne e uomini della cultura e dell’arte. Idea tutto sommato prevedibile; forse anche troppo. Perché i termini appena usati (la cultura, l’arte) restano in un ambito generico, e potrebbero addirittura apparire come una sorta di contorno, o di mera espressione di buone intenzioni.

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Quando si parla di “cultura” si evoca un’attività fondamentalmente antropologica. Che è evidentemente indispensabile; ma resta informe se non si tiene in conto ciò che veramente la nutre, cioè la vera e propria attività di pensiero, resa particolarmente viva da Dante quando si prepara a una svolta decisiva nel suo viaggio spirituale: “Infino a qui l’un giogo di Parnaso / assai mi fu; ma or con amendue / m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso” (Pd 1, 16-18). In parole povere, lì si descrive l’eterna fratellanza e insieme rivalità tra poesia e filosofia, inclusa la teologia. Rischiando il sarcasmo (ma non bisogna lasciarsi spaventare), è venuto il momento di dire che senza filosofia e poesia non ci sarà una completa uscita, una liberazione realmente vissuta, dall’emergenza virale; e non solo: a proposito di un termine che ricorre incessantemente in questi contesti, cioè la magica parola “Europa”, è ora di ricordare la frase del grande filosofo austro-tedesco Edmund Husserl (1859-1938), quando auspicava la “rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia”.

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Ma qui non si sta parlando di “commissionare” qualche esimio professore di filosofia, nello stile del grande Emanuele Severino (1929-2020) al fianco di qualche illustre poeta “laureato”, nello stile di — boh?.  Per uscire veramente dallo spirito della pandemia e per cominciare almeno a discorrere seriamente dell’Europa, bisogna affrontare qualcosa che non ha a che fare primariamente con discipline accademiche o generi e scuole letterarie; perché la poesia-e-filosofia non sono nella loro essenza “discipline”  o “specializzazioni”. Non si tratta infatti, o non si tratta  primariamente, di “filosofia” e di “poesia” in senso stretto, ma di un’attenzione di pensiero e di una sensibilità diffusa. Queste facoltà sono la linfa vitale nella libera vita della società. Libera, come nell’idea cruciale di libertà d’espressione; tali dunque da toccare l’esistenza di tutti coloro che, qualunque sia il loro livello culturale, siano cittadini e non sudditi (e in quanto cittadini, per esempio, non siano mai stati veramente impressionati dalle esortazioni a “parlare tutti con una voce sola”).  Ma, nella dimensione del pensiero, la libertà serve poco o nulla se non è accompagnata dalla critica. Cioè: pensare nel pieno senso della parola a un qualunque oggetto o tema, significa pensare simultaneamente a come si pensa a questo oggetto o tema; insomma, un autentico pensiero si interroga mentre si svolge.  E la verifica, “la prova del nove” del fatto che si stia veramente pensando e non declamando è che tale attività crei un atteggiamento di umiltà: l’umiltà (valga un solo e decisivo esempio) di Socrate.

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Come appare allora, in un sommario sguardo a volo d’uccello, il paesaggio della filosofia e della poesia italiane ai tempi del virus? Qui è importante essere chiari, perché gli auspicabili nuovi sviluppi, l’attraversamento del presente per trasformarlo, non nascono nel vuoto, ma sono strettamente legati alla situazione attuale. (Non è vero che “nulla sarà più come prima”.) E oggi in questo paesaggio si scorgono “luci e ombre”, come si diceva una volta nei componimenti liceali.  Riguardo alla filosofia italiana nei suoi rapporti comunicativi con la cittadinanza (rapporti in cui essa continua a rivelare le sue grandi doti di finezza, e di ampiezza negli orizzonti comparatistici), si sente però il bisogno di ribadire la grande invenzione di Socrate: vale a dire il suo pensiero dialogico. Durante la conversazione con i suoi interlocutori, Socrate dialoga anche con se stesso, mettendosi in questione: ecco come nasce l’umiltà del pensiero. E potrebbe essere necessaria più dialogicità e meno professoralità, nell’Italia filosofica del dopo-virus.

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“Povera e nuda vai, filosofia”, dice un citatissimo verso di un sonetto di Petrarca (nel quale  comunque appare chiaro che Petrarca usa il termine “filosofia” in un senso generale che abbraccia anche  la poesia). Ma, attenzione ai clichés. La filosofia oggi non è, né povera (gode di un dignitoso trattamento universitario) né nuda (“veste” in modo borghesemente corretto). La poesia invece fa capolino a ogni angolo di strada (ed è vittima di due luoghi comuni opposti ed ugualmente falsi, spesso enunciati contradditoriamente nello stesso discorso: che sia troppo scarsamente coltivata, e che se ne scriva troppa).  Anche se “povera”, poi, la poesia è tutt’altro che nuda: si presenta come un’accattona di lusso, avvolta in vesti multicolori rimediate qua e là. E va bene così: l’esperienza della poesia, o è avventurosa, o non esiste come tale. La difficoltà della poesia ai tempi del coronavirus è di natura diversa: la dizione poetica corrente è troppo ansiosa di essere consolatoria e protettiva. (Il problema esiste anche, per esempio, in Usa: l’Accademia dei Poeti Americani ha creato un programma speciale per i lettori, Shelter in Poems ovvero “Rifugio nelle poesie”; dove il termine shelter si applica di solito ai ripari più o meno improvvisati contro  bombardamenti e uragani.)

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Troppe poesie in Italia oggi sembrano destinate a un ipotetico volumone collettivo “De consolatione poesiae”come successore in ritardo della grande opera personale De consolatione philosophiae  di Severino Boezio (circa 480 – circa 524). Ma tutti ormai dovremmo sapere che la poesia a tema — o commissionata, o di occasione,  che dir si voglia — funziona meritoriamente come incoraggiamento etico e psicologico, piuttosto che propriamente come poesia. La poesia guarda di sbieco all’etica, alla società, alla politica: il suo sguardo invece punta direttamente sul mondo. Il paradosso (che è la casa della poesia) è che il valore etico della poesia scaturisce proprio da ciò che a prima vista sembra essere alieno dall’etica: una certa gratuità, una certa an-archia. Forse le migliori poesie riguardanti il coronavirus saranno scritte un paio d’anni dopo il momento in cui ci sentiremo sostanzialmente al sicuro.

Paolo Valesio

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IL VIRUS AL PASSO DEL NICHILISMO

Presento qui la versione originaria del mio ultimo articolo, pubblicato sul quotidiano online “IlSussidiario.net” del 03.03.2020 con il titolo redazionale “Il ‘messaggio’ del coronavirus al tempo del nichilismo”.

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IL VIRUS AL PASSO DEL NICHILISMO

Siamo tutti d’accordo che una malattia vastamente contagiosa è un male; ma probabilmente ben pochi oggi, nella nostra civiltà orgogliosamente laica, sarebbero disposti a considerarla come un derivato del Male (ciò susciterebbe reazioni contro i “residui medievali” ecc.). Giochiamo allora fino in fondo, cioè fino a che non si va a urtare contro un muro, il gioco del laicismo. Una pandemia è uno di quei fatti sconvolgenti che ci pongono di fronte all’elemento irrazionale nella nostra vita – quell’elemento che noi, cittadini del progresso, siamo allenati a ignorare; salvo personificarlo nelle patologie (esistono alcune persone “irrazionali”, da tenere a bada come utenti psichiatrici); o – in stile neo-marxista – esorcizzarlo con un’etichetta condannatrice che in fondo non vuol dir nulla, e serve solo a scomunicare una vasta parte dei grandi pensatori della modernità: “irrazionalismo”.

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Un fenomeno come il virus, invece (lasciamo stare la terminologia scientifica), ci sbatte per così dire in faccia quello di cui in verità avremmo dovuto essere consapevoli da sempre: la vita di tutti noi è immersa nell’irrazionale. Non lasciamoci ingannare, a questo proposito, dalla dolcezza di certe evocazioni, come nei famosi versi della Tempesta shakespeariana: “Siamo intessuti della materia / di cui son fatti i sogni; e la nostra piccola vita / è cinta tutt’intorno dal sonno”; parole come queste evocano qualcosa di fondamentalmente incontrollabile, dunque in ultima analisi la morte, dunque in estrema analisi il nulla.

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Se l’irrazionalismo è solo un flatus vocis, il nichilismo d’altra parte è un movimento di pensiero (un pensiero-esperienza) che, almeno dalla crisi dell’Illuminismo in poi, continua a segnare la nostra percezione del mondo. Per esempio, Leopardi. Il quale inaugura la modernità poetica italiana, ma viene troppo spesso frainteso come il campione di un’idea un po’ mummificata della Poesia con l’iniziale maiuscola. Leopardi: che in realtà è il protagonista di uno dei più grandi e tormentati dialoghi, interni all’opera di un singolo autore, fra esperienza lirica e viaggio filosoficamente intenso dentro il nichilismo (altro che “pessimismo”!).

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Il nichilismo da attraversare

Eccoci dunque al passaggio: per sviluppare un’esperienza matura della vita (al di là dei tecnicismi intellettuali) il nichilismo, prima di essere criticato, dev’essere attraversato. Ci sono attraversamenti radicali, per esempio quello del grande filosofo Emanuele Severino (1929-2020), il quale ci ha spiegato e rispiegato che il nichilismo è l’atmosfera di tutto il pensiero occidentale da Platone in poi (affascinante ma pericolosa idea: si potrebbe dire che, se tutto è nichilismo, niente lo è). Meglio allora gli attraversamenti più esistenzialmente concreti, e immersi nei fenomeni vitali.

Come il folgorante romanzo saggistico-autobiografico Un uomo finito (1913, fortunatamente ripubblicato in questi anni) di quel grandissimo intellettuale che fu Giovanni Papini (1881-1956). E quel libro appare oggi come un precursore di opere quali il Sommario di decomposizione (1949) di Emil Cioran (1911-1995): pensatore aforistico romeno, ridotto ad apolide e divenuto poi grande prosatore nella sua lingua non-materna, il francese. (Esperienze così, preparano in un certo senso al nichilismo). Una sola citazione, da questo conturbante Sommario di decomposizione: “E’ più che legittimo figurarsi il momento in cui la vita passerà di moda, in cui cadrà in disuso come la luna o la tubercolosi dopo gli abusi romantici: essa andrà a coronare l’anacronismo dei simboli denudati e delle malattie smascherate; tornerà a essere se stessa: un male senza attrattive, una fatalità senza splendore”.

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Siamo tornati dunque al virus. Con quel tocco di cinismo (la tubercolosi passata di moda) che spesso si accompagna alle descrizioni nichilistiche, e le rende ostiche ai cultori dei discorsi edificanti e delle “magnifiche sorti e progressive” su cui già ironizzava Leopardi. Ma gli intellettuali e umanisti debbono affrontare il rischio di non essere sempre popolarissimi (come già notava José Ortega y Gasset), se non vogliono restare quello che oggi troppo spesso sono: figure anacronistiche e alquanto polverose; in attesa che si affermi un tipo intellettuale più adatto al terzo millennio [vedi Paolo Valesio, Bret Easton Ellis, il Pensiero Unico mette in crisi perfino i suoi figli, “IlSussidiario.net”, 04.02.2020 e qui].

Anche il nichilismo, intanto, è cambiato: entrando nel ventunesimo secolo, si è lasciato alle spalle i panorami rosseggianti e un poco enfatici del Novecento post-nietzschiano. Ha acquistato, diciamo così, un color grigio-cenere, è diventato lo sfondo di una rassegnazione che si tende a designare con i termini della civiltà precristiana: stoicismo, fatalismo. Se si è persa l’idea di un grande Male in agguato (vista come una forma di superstizione), si è al tempo stesso smarrita la fiducia in un grande Bene, in un disegno provvidenziale; e così si resta sempre nell’ambito del nichilismo. In che modo, allora, si può tentare di andar oltre? Sviluppando la riflessione sul parallelismo fra questi mesi “virali’ e il tempo di Quaresima [vedi Marco Pozza, Coronavirus e Quaresima / Che differenza c’è con la quarantena?,”IlSussidiario.net”, 26.02.2020], si intravede l’idea che la traversata della Quaresima possa essere anche un modo di immergersi senza riserve ed eufemismi nel flusso oscuro del nichilismo, per poi emergerne preparati alle “cose nuove” (Ap 21, 5).

Paolo Valesio

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Quaresima al passo del ventunesimo secolo

 

 

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«Esploratrici solitarie». Una recensione di Mauro Ferrari

Riporto qui la recensione di Mauro Ferrari al mio libro di poesie Esploratrici solitarie (Rimini, Raffaelli, 2018), originariamente apparsa sulla rivista «Nuovi Argomenti» — recensione che si connette dialetticamente a quella di Maria Grazia Calandrone in questo stesso blog.

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ESPLORATRICI SOLITARIE

di Mauro Ferrari

Credo che un libro che provoca riflessioni su tanti aspetti dell’uomo e della  vita sia un bene prezioso e dimostri, al di là di tanta retorica sul fare poesia (lampante quella manifestata un po’ ovunque il 21 marzo) la sua vitalità e necessità; un ottimo esempio di questa resilienza è l’ultima raccolta di Paolo Valesio, Esploratrici solitarie, che si apre con un’auto-presentazione, o meglio, auto-spiegazione del libro, soffermandosi sulla metafora delle esploratrici solitarie. Spiega Valesio che l’idea nasce dal termine tecnico “Enfants perdus”, cioè ragazzi che, in guerra, avanzavano in territorio nemico a mo’ di commandos, quindi con poche possibilità di salvarsi. Già perduti in partenza, insomma.

Ma qui il sintagma diviene veicolo metaforico dei testi poetici: le Esploratrici solitarie sono quindi intuizioni, tentativi di sondare il mistero, e probabilmente nessuna esegesi arriverà dove loro sono state, in territori mai scoperti dai cui confini nessun viaggiatore torna davvero: il testo, se è autentico, ne sa sempre un po’ di più, e sa sempre qualcosa di diverso dalla “resa in prosa” – senza per questo scomodare derive dei significati e lodi all’oscurità, le quali non fanno che eliminare una responsabilità del testo e sul testo che Valesio pone invece al centro della propria poetica.

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Mauro Ferrari recensisce Paolo Valesio

Dico questo anche dopo aver meditato sulle tante e belle recensioni al libro, alcune per la verità più riflessioni generali a partire dal libro come occasione, e soprattutto sulla densa e centrata recensione di Maria Grazia Calandrone apparsa sul web, con cui non concordo solo su un punto centrale, laddove si afferma che Valesio è immune dal cô confessionale della poesia. Ovvio che questo sia un complimento, e non vorrei quindi che annotare un lato confessional in questa poesia sembrasse una critica negativa. Anzi, pur nelle tante differenze rispetto ai poeti confessionali (fin troppo facile citare Robert Lowell) trovo la stessa ansia conoscitiva, la stessa brama bruciante di autoanalisi. Ma in Valesio tutto sembra puntare a una idea di salvezza etica, di sanità per sé e per il mondo: un’operazione salutare insomma, che parte da un gap conoscitivo che il poeta cerca di colmare con intelligenza, attenzione e curiosità.

Anche l’adozione della terza persona è un modo originale per sfuggire alla trappola dell’Io lirico effusivo per guardarsi dal di fuori, per oggettivarsi, cioè vedersi e sentirsi parte di quell’umanità che ritrae con tanta attenzione: appunto per andare oltre l’aspetto confessionale e inscriversi nel mondo che descrive.

Valesio ci ha dato il suo libro più alto, in cui ogni apparentemente casuale o accidentale osservazione, ogni riflessione su di sé e sul mondo è un tassello di una ricerca condotta senza retorica, a bassa voce e quasi minimal, ma mai minimalista, su quella che definisce, con felicissima espressione, “la ferocia del vivere” (p. 65). L’aspetto quasi diaristico della raccolta, in cui ogni poesia riporta luogo e data di composizione (non di rado dandoci squarci interessanti sul proprio laboratorio poetico: alcune poesie sono composte in viaggio, nella metro, o in meditazione sul “laghetto”) non fa che enfatizzare la coerenza e la coesione di questo lavoro durato dal 1990 fino al 2017 e approdato a un libro composito (in tre sezioni, quasi indipendenti ma ben articolate in un unico discorso).

Osservazioni apparentemente casuali, dicevo: come quando, in Non è una natura morta (p. 57) – e dandoci una traccia da seguire citando di sbieco la non-pipa di Magritte – in realtà riflette sulla distanza tra l’oggetto reale e la sua trasfigurazione artistica, o come quando giunge alla succitata  “ferocia del vivere” a partire da una svagata annotazione sul sole emiliano (Autunno dentro estate, p. 65). “Basta guardare”, ci dice Valesio (p. 66): vero, questo è il retaggio romantico – non è casuale la dedica a Wordsworth, il massimo specialista delle poesie composte sui laghi… Ma è un guardare che non è solipsistico, bensì ha bene in mente sia la dimensione creaturale che quella sociale dell’uomo.

Anche i rapidi, lievi quadri urbani della seconda sezione ci parlano di identità e di comunità (Identitario, p. 78, nelle sue torsioni di imagery, è degna di John Donne). Ma un testo come La difficile solidarietà (in altra sezione, p. 132) ci dice una cosa in più:  “Lui ama gli uomini / solo se li vede come alberi / nella foresta di Dio”. Notiamo la sottile ambiguità: “alberi” in senso collettivo, in cui il singolo insomma sparisce, o presi uno per uno, come parte di un tutto? La differenza è sostanziale. E difatti qui parte la riflessione, avviata da un “Ma”: poi “li perde di vista”, perché un albero isolato nella foresta è invisibile; finché il dissidio è ricomposto, a un livello superiore ma ancora problematico (perché Valesio non ha e non ci dà certezze): lui solidarizza nel vedere “i patti e i sacrifici / con cui il singolo / placa la propria follia”; ed è la solidarietà verso la creatura singola, irredimibilmente imperfetta in cui ovviamente si riconosce.

Nella riflessione medievale sul sapere si parlava di curiosità, stupore, meraviglia, sorpresa, ciò che spinge l’uomo a conoscere, dice Aristotele; e Valesio ce ne dà infiniti esempi, come nell’osservare nella metro di Manhattan una donna “avvenente”, “forse-svenente”, che in realtà “stava / aspettando un messaggio telefonico” (p. 100): perché la realtà è fuorviante, ambigua, indecidibile, e quindi esige la nostra massima attenzione; il tentativo di afferrare la realtà nella sua essenza ultima è il motore di una ricerca espressiva discreta ma sempre viva, che ad esempio si esprime in composti audaci (“forse-svenente”), spesso calcata sulle possibilità dell’inglese (“cuore-lago”, p. 177), o in forme lessicali appena distorte o preziose, e che comunque trapela dalla tensione sintattica e dal gusto per il paradosso metafisico; o ancora, per esempio, dallo stravolgimento della forma-sonetto (Il sonetto di Maddalena, p. 140).

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Il critico riflette sulla poesia di Paolo Valesio

Ho il sospetto che ci sia un certo pudore nel definire la poesia di Valesio religiosa, quasi la definizione ne limitasse il valore. Forse perché il suo rovello non è esibito ma lasciato continuamente sotto traccia? Forse perché la sua “bruciante onestà” (prendo dalla recensione citata all’inizio) si permette, se non un dubbio, la sofferenza per la propria inadeguatezza, che ci riporta persino a Pascal? O perché Valesio parla di cose scomode come rimorso (si legga Stazione della Centoventicinque, p. 104, poesia appena bisbigliata ma altissima), colpa, responsabilità, coscienza – cose poco comuni nel minimalismo imperante?

Certo, l’aspetto di preghiera che era tanto in evidenza per esempio nei Dardi (2000, 2002) qui non c’è, come se Valesio avesse imparato a convivere con il dubbio della fede, ma sapesse bene che la sua è la ricerca continua di un senso ulteriore che si nasconde, come ho evidenziato in alcuni esempi, dietro le cose. Che sono quel che sembrano (l’esergo di Emerson a p. 128), ma sono anche altro, o meglio rivelano a chi vuole e sa osservare (elemento centrale in questa poetica) che in controluce c’è un’altra realtà – il che ci riporta appunto a quanto dicevo in apertura su quei tentativi di sondare il mistero che sono i testi poetici, che funzionano quando sono precisi, netti. Onesti.

http://www.nuoviargomenti.net/poesie/esploratrici-solitarie-2/ 

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Paolo Valesio, autore del libro qui recensito da Mauro Ferrari

 

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Commento a un libro di poesie

Presentazione di Maria Grazia Calandrone a Paolo Valesio, Esploratrici solitarie, Rimini, Raffaelli, 2018, presso lo “Spazio Pagliarani”, Roma, 22 febbraio, 2019. 
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Maria Grazia Calandrone legge e commenta le poesie di Paolo Valesio

Commento a un libro di poesie

Ad apertura di libro, colpisce immediatamente che la poesia di Valesio sia rimasta immune alla sua lunga residenza americana, sia alla novecentesca versione confessional, sia all’oggettività quotidiana degli ultimi esiti. Se ne può dedurre che la poesia di Valesio provenga da un altro luogo, probabilmente interiore, che non è la contingenza – e neanche, forse, la cosiddetta “realtà”, perché quelle di Valesio sembrano essere poesie di vita ardente dietro la grata obbligata di segni grafici, visto che ciascuna poesia, come lo stesso Valesio precisa nella sua bella e onesta introduzione, ha trovato da sé la propria strada.

Ogni poesia sta sola sul cuor della pagina – e la luce che la trafiggerà viene dall’occhio di chi guarda, che posa (illusoriamente, ma pensarlo serve a partecipare con fiducia) su di esse uno sguardo di peso uguale a quello di chi scrive, talmente le poesie sono lasciate al vivo come offerte. E questo neanche basta, se Valesio scrive, più avanti, nel Sonetto del colpo di vento(p. 61), che la sola possibilità di non perdere la vita stessa è offrirla. Dunque parliamo di una coincidenza desiderata tra la materia vivente e la sua traduzione in poesia, perfettamente consapevoli che, come ogni traduzione, neanche questa di vita in poesia possa davvero aderire all’originale. E non è nemmeno auspicabile, se la poesia ci serve a rivelare quel che lo stesso originale non svela.

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Dico questo perché la caratteristica più rilevante delle poesie di Valesio è la loro bruciante onestà, che sembra davvero “arricciare” le pagine sotto i nostri occhi come cartigli nel focolare, o solidificarle come ferro di spada: entrambe immagini incontrate nel libro, a conferma di come l’apparente tono pacato nasconda ferro e fuoco – elemento che tempra e che viene temprato, fin che, con il trascorrere del tempo, il detestabile “io” diviene un vaso pronto ad accogliere l’altro da sé e il mistero del mondo, il cui “mistero / è: come fa a sembrare così vero?” (Sonetto della vista immaginaria, p. 45)

L’apparentemente vero mondo fuori dall’io, sembra dunque essere la meta del gesto poetico ed esistenziale di Valesio, un “entrar dentro di sé” che “sfonda il dentro e in fuori lo rovescia” (Identitario, p. 78); un fuori insieme sacro e profano, perché Valesio tende qui e là a svelare coincidenze tra l’inginocchiarsi delle prostitute e quello dei santi (La putto-santità, p. 82); o a trovare poesia nelle macchine sessuali disegnate dal marchese de Sade (I libri più sfogliati, se non letti, p. 91), rivelando anche a se stesso l’inutile esegesi dello sconosciuto, come la bella signora dal mento pronunciato che, in metro, aspettava un messaggio (La forse-svenente, pp. 100-101) – che diventa occasione per discutere del bello e del buono e dell’immaginazione, che sempre slitta fuori dal binario della semplice e nuda realtà. Poiché invece “le cose sono realmente quello che sembrano essere”, come scrive Valesio in un esergo, citando Ralph Waldo Emerson (Duologo a distanza, p. 128), conviene tenersi alle cose come ci si tiene a un mancorrente – e anche a questo sembrano servire note, date e indicazioni topografiche, che ancorano il testo poetico a un momento e a un luogo determinati, come onesti e necessari documenti di realtà.

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Una realtà resa reale sviluppando a volte onomatopee e mimesi, a volte ritagliando frasi in presa diretta dal quotidiano, ma anche adoperando neologismi e brevissime ossessioni stilistiche, per esempio gli accenni di plurilinguismo, che erotizzano il tessuto della pagina come l’odore di un vaso di gigli (Intimità, p. 29).

Ma, se abbiamo fin qui detto dell’onestà del reale, adesso diciamo anche del pudore, che sparge ovunque la propria regola, pudore anche di pregare troppo e d’invocare troppo, pudore che fa scorrere a tratti sulla pagina come l’acqua di geyser – anche questo caldissimo, anche questo sommerso – l’invito mai davvero placato al silenzio, che sta sotto la poesia di tutti i poeti e che, per fortuna, i poeti non ascoltano mai.

Nel cammino che si svolge sotto i nostri occhi nella parte finale del libro – e che possiamo dire di “fede”, ovvero ricerca di senso che salva la terza persona singolare autoriale da sperdimento e follia, la suddetta terza persona sente che, per amare davvero, gli mancano le virtù piccole, non quelle eroiche: chi tende a una più o meno metaforica umiltà, deve dunque superare l’ambizione stessa dell’umiltà, la grandiosità della virtù, il lusso sfrenato di essere povero o addirittura l’estetizzazione sottintesa alla deformità (Monacus Aestheticus, p. 154), deve infine riconoscersi semplicemente misero fra gli ugualmente miseri perché – com’è detto a chiusura di libro – nessuna porta, al buio, è mai davvero chiusa (Ogni porta richiusa somiglia a una aperta, p. 182).

E allora, va forse rintracciata proprio la nostra percentuale di buio e di miseria, per trovare il super-potere grazie al quale riusciamo ad attraversare (almeno provvisoriamente) la porta di noi stessi e trovarci, finalmente, nell’aperto animale di Rainer Maria Rilke (nell’Ottava elegia: “L’animale, qualsiano gli occhi suoi, vede l’Aperto”).

 

Presentazione di Maria Grazia Calandrone a Paolo Valesio, Esploratrici solitarie, Rimini, Raffaelli, 2018, presso lo “Spazio Pagliarani”, Roma, 22 febbraio, 2019.

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UNA COLLANA TEATRALE, OGGI

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UNA COLLANA TEATRALE, OGGI

Riporto qui il breve testo programmatico della collana di teatro intitolata Persona, che ho fondato con il prezioso appoggio di Mauro Ferrari, cui sono molto grato: 

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Luigi Pirandello, autore di Maschere nude

“Il termine persona, nella tradizione neolatina, combina in modo inevitabilmente paradossale l’idea di una copertura con l’idea opposta di un nucleo autentico e profondo. (Il titolo più emblematico del modernismo teatrale italiano, quello della raccolta pirandelliana Maschere nude, è in un certo senso una generosa utopia: nessuna maschera finirà mai con l’essere “scoperta”.) Perché una collana di teatro presso un editore la cui vocazione fondamentale è la poesia? Non per delimitare un non meglio precisato “teatro di poesia”; bensì perché il teatro – tutto il teatro, dalle forme più metrico-letterarie a quelle più colloquiali – è, intrinsecamente, poesia.

“La collana dedica la propria attenzione soprattutto al teatro italiano contemporaneo, ma si apre anche alle riproposte di classici e, in una prospettiva internazionale, a testi tradotti. Persona accoglie anche saggi di critica teatrale, e opere che realizzino con impegno forme di ibridismo sperimentale, come per esempio: teatralizzazioni di film, romanzi, saggi e simili. Infine, i volumi della collana potranno contenere – oltre alle eventuali prefazioni e postfazioni – altri elementi integrativi del testo teatrale, come: interviste, fotografie, estratti da fonti e da materiali di lavoro, ecc.”

Qualche parola, adesso, di commento e aggiunta alla dichiarazione programmatica. Parlare di: “Una collana teatrale, oggi” non è la stessa cosa che discutere su: “Dove va il teatro?”. Io non so dove vada il teatro, né dove vada la poesia, né dove vada la narrativa, ecc. Tutte queste attività vanno dove gli capita e dove gli pare, secondo l’antico e sempre valido detto che lo spirito soffia dove vuole. Se mi soffermo dunque su questa collana, non è per una qualche forma di solipsismo. In quanto scrittore, posso testimoniare soltanto dell’esperienza che personalmente vivo e sviluppo; e in quanto organizzatore culturale (direttore di rivista, e di collane), testimonio di esperienze altrui che mi sembrino valide, e che siano interessantemente diverse dalle mie (dunque, nessun pericolo di solipsismo).

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Maschere, maschere

In verità, questi due movimenti dello spirito (adesione alla propria esperienza, testimonianza delle esperienze altrui) sono – o almeno, a parer mio, dovrebbero essere – sostanzialmente opposti; e il meglio che si possa auspicare è che si crei fra essi una dialettica. Non concepisco infatti questa collana come un prolungamento delle mie idee e predilezioni di scrittura, ma come (ripeto) un confronto con ciò che è altro da me. Per esempio, i due volumi finora accolti in essa sono ugualmente  ben riusciti ma radicalmente diversi: A me non sembra di dover morire e altri dialoghi teatrali di Alessandro Quattrone descrive interazioni così paradossalmente razionalistiche da sfociare nel surrealismo, mentre Dedo di Salvatore Ritrovato (quest’ultimo in corso di pubblicazione) rappresenta una scrittura di tipo lirico – così da fugare ogni idea che Persona come collana intenda rispecchiare una qualche singola corrente o tendenza. (Anche se sono ammiratore e studioso del Futurismo, ritengo che ogni retorica da manifesto, in senso neo-avanguardistico o non, abbia oggi un interesse essenzialmente storico.)

Ciò si connette anche all’idea (mi permetto di citare dal programma) che “il teatro – tutto il teatro, dalle forme più metrico-letterarie a quelle più colloquiali – è, intrinsecamente, poesia”.  È un tema, questo, che richiederebbe tutta una bibliografia, ma qui mi limito a quello che a me pare l’elemento essenziale: l’autentica parola teatrale è per sua natura poetica perché è una parola franta. I dialoghi teatrali (anche quelli cosiddetti realistici o naturalistici) non sono mai veramente realistici perché in essi le frasi sono sfrangiate, frammentate, sovrapposte, balzano dall’una all’altra idea e immagine; e questa è una caratteristica essenziale anche della dizione poetica. (Una riprova di ciò è che anche in quella tarda derivazione teatrale che è la sceneggiatura cinematografica, si ritrova – almeno, negli esempi migliori – questa caratteristica.)

Certo, Persona è pronta ad accogliere anche testi che siano scritti nella loro interezza in veri e propri versi; ma in essi ugualmente, ciò che conterà nella valutazione sarà quella torsione della parola che si è già indicata come caratteristica dell’intrinseca poeticità del teatro. E infine, si auspica che il linguaggio di tali proposte sia parte di un’architettura mentale propriamente teatrale, cosi che il lettore di questi volumi destinati alla lettura (in attesa di possibili messe in scena, o letture drammatiche, o mises en espace, e simili) possa osservare con gli occhi della mente (assistere a, non semplicemente leggere) una storia “recitata”. Scavalcando, fra l’altro, certe categorie puristiche in cui il linguaggio italiano del teatro sembra ancora irretito: come l’inutile e (l’abbiamo appena visto) fuorviante termine di “teatro di prosa”; o la tassonomia limitatrice di “dramma” versus “commedia” (laddove in inglese si usa il termine generale e non aprioristicamente impegnativo di play, e in francese si parla semplicemente di pièce, e così via).

Naturalmente, le questioni pertinenti a una collana come questa non sono soltanto formali; ma qui il discorso si farebbe vieppiù lungo, e mi limito ancora una volta a un’indicazione di fondo. Avevo detto sopra che non intendo profetizzare dove vada il teatro; semplicemente, oso sperare che esso non continui a marciare così regimentalmente e ortodossamente nella direzione che sembra oggi essere predominante, e non solo in Italia. In un articolo apparso l’anno scorso nel giornale Die Welt, l’atmosfera dominante nel teatro tedesco contemporaneo veniva sintetizzata con una frase ironica: “Persone benpensanti vanno a teatro per darsi delle pacche sulle spalle congratulandosi a vicenda per il loro essere benpensanti, con la collaborazione di messe in scena ben pensanti”. E si concludeva (con una variazione sul famoso discorso di Amleto agli attori) che il teatro dovrebbe tornare al suo compito centrale, quello di “servire da specchio a (tutta) la società” (il corsivo è mio).

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L’ennui secolare della correttezza ideologico-politica

E invece? E invece il teatro, a New York come nelle città italiane e (pare) anche in quelle tedesche e altrove, sembra funzionare troppo spesso come il braccio secolare della correttezza ideologico-politica: termine (l’ho già scritto) quanto mai equivoco, perché è di solito enunziato con sorrisetti complici e indulgenti, laddove sotto questa formula si nascondono il conformismo repressivo e la censura preventiva. “Pensare, non è proibito” (Il n’est pas défendu de penser) esclama verso l’inizio dell’opera di Bizet la sua protagonista Carmen quando è tratta in arresto – e sembra un’ovvietà. Ma non lo è veramente, almeno se pensiamo alla creazione nei vari campi – non solo in quello artistico. Fermiamoci pure, comunque, al nostro caso dell’autore di teatro, o di cinema: se il drammaturgo/a intuisce che il progetto cui sta pensando ha possibilità minime di essere messo in scena o di esser prodotto, egli sarà tentato di non sviluppare la concezione che aveva cominciato, come suol dirsi, ad accarezzare nella mente; il che equivale a subire una proibizione o impedimento di pensare – nel senso proprio e forte di questo termine. La conseguenza di tutto ciò, dall’altra parte della barricata (ovvero, al di qua delle luci della ribalta), è la corruzione del gusto del pubblico – e non credo di esagerare usando questo termine. Valga un esempio.

Un anno fa all’incirca ho assistito a Bologna, in un teatro di buona tradizione (L’Arena del Sole) alla rappresentazione di uno dei drammi più famosi di uno dei fondatori del teatro moderno, il drammaturgo svedese August Strindberg. Si tratta de Il padre – un testo che (come quelli di Ibsen, e di pochi altri autori) merita benché moderno l’antica e austera denominazione di “tragedia”. Il caso voleva che avessi veduto alcuni anni prima la messinscena dello stesso dramma in un teatro sperimentale di Manhattan. E va detto a vantaggio di quel pubblico americano che esso era pienamente coinvolto nella forza di quelle azioni e parole (o parole-azioni), e che alla fine applaudì con convinzione.  A riprova del fatto che la vasta e varia offerta di teatro a New York serve ancora in una certa misura da anticorpo all’epidemia di conformismo di cui si diceva.

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August Strindberg

Più fragili, invece, sono gli anticorpi nel pubblico teatrale italiano… In quel teatro bolognese, si sentiva la crescente perplessità del pubblico mentre si svolgeva l’azione-parola de Il padre in versione italiana. (In teatro, a differenza di ciò che accade nel cinema, si può dire che le sensazioni si tocchino con mano: ha luogo quello che si potrebbe definire un corpo a corpo soft per cui gli spettatori trovandosi come gruppo di fronte a corpi vivi in azione, si sentono in più stretto contatto fra di loro; le reazioni del pubblico tutt’intorno si sentono per così dire sulla pelle.) Perplessità, si diceva: perché a ogni battuta diveniva più chiaro che il protagonista maschile, benché duro e possessivo, non era moralmente superiore alla protagonista femminile – anzi. Insomma il pubblico bolognese – generalmente abbastanza ideologizzato – non riusciva a incasellare quel padre come il “cattivo” della situazione, adattandolo ai correnti schemi di “genere”.

Questa reazione sull’orlo dell’infantilismo (conseguenza di ciò che accade quando si pre-giudica ideologicamente) finì quella sera col rendere indigeribile – troppo “forte”, come si dice – un dramma del 1887! Così la maggior parte degli spettatori, imbronciati e incerti, non applaudì alla fine – e lo scarso riconoscimento deluse, comprensibilmente, l’ottimo attore che si era impegnato a fondo; il quale si rifiutò di comparire alla ribalta (avvenimento rarissimo nel protocollo del teatro – e rimpiango ancora di non avere inviato a quell’artista un messaggio di solidarietà). Mi sono soffermato su questo caso particolare perché esso è il simbolo preoccupante di tutta una situazione di ideologizzazione del teatro contemporaneo, all’insegna della ricerca di lezioni edificanti (a senso unico). Non presumo certo che la nostra piccola Personapossa da sola cambiare la situazione. Desidero semplicemente ribadire che questa collana “non vieta di pensare”; e vorrebbe arrecare il suo modesto contributo alla coltivazione nei nuovi autori (giovani e non) di quelle energie di libera espressione che, alla lunga, sono ciò che conta di più.

Paolo Valesio

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Persona, Collana di teatro diretta da Paolo Valesio

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LA MEZZANOTTE DI SPOLETO

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LA MEZZANOTTE DI SPOLETO

La raccolta poetica di Paolo Valesio “La Mezzanotte di Spoleto” è stata pubblicata originalmente nel 2013 per i tipi di Raffaelli Editore di Rimini.

L’anno scorso è uscita la versione bilingue americana, “La Mezzanotte di Spoleto / Midnight in Spoleto“, con traduzione di Todd Portnowitz (Fomite Press).

In vista anche di questi sviluppi, l’editore Raffaelli ha deciso di pubblicare quest’anno la seconda edizione, riveduta e corretta, della raccolta originale italiana del 2013.

Il libro è ordinabile dal sito della casa editrice Raffaelli Editore, è disponibile su ibs.it e prenotabile su amazon.it.

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Esploratrici Solitarie. Poesie (1990-2017)

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Esploratrici Solitarie. Poesie (1990-2017)

Walter Raffaelli Editore di Rimini ha appena pubblicato la ventunesima raccolta di versi (circa 200 pagine) di Paolo Valesio, “Esploratrici Solitarie. Poesie 1990-2017”, raccolta che contiene versi inediti o finora editi soltanto in riviste e che si pone come un vero e proprio libro, non come una raccolta eterogenea.

Il libro è ordinabile dal sito della casa editrice (link).

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LA PALMA DELLA POESIA

Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il  20 luglio 2018 col titolo “Roberto Roversi, la sinistra è una prigione ma si può uscire”.

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LA PALMA DELLA POESIA 

Recentemente un gruppo di poeti appartenenti a tre generazioni diverse si è riunito in un parco bolognese per ricordare il poeta (e libraio, saggista, editore) Roberto Roversi (1923-2012): pressoché unico, fra i poeti bolognesi del tardo Novecento, ad aver raggiunto un rilievo nazionale nonostante la sua decisione dagli anni Sessanta in poi di cessare i contatti con l’editoria regolare. Dopo la bella ora del ricordo (ognuno ha scelto e letto, nella luce del crepuscolo, qualche verso di Roversi), mentre ci allontanavamo fra gli alberi, veniva da riflettere su che cosa sia poi accaduto, dalla svolta fra i due secoli fino a oggi, e non solo nell’ambiente poetico bolognese; perché, se il cliché della globalizzazione mantiene ancora un minimo di senso, l’impasse in cui si trova Bologna contiene una lezione che va oltre la poesia e riguarda (senza alcuna esagerazione) la posizione dell’intellettuale non solo su questa ma anche sull’altra sponda dell’oceano.

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Dicembre 1957, Libreria Antiquaria Palmaverde (via Rizzoli 4, Bologna). Riunione di redazione della rivista “Officina”, da sinistra: Angelo Romanò, Gianni Scalia, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi

Roversi, oltre che come poeta e animatore intellettuale (dalla base della sua libreria antiquaria “Palmaverde”, punto di riferimento culturale fin dal 1948, e che oggi è un ricordo), rappresenta qualcosa di cruciale anche perché lui ha fatto la guerra (specificamente, ma non è questo che soprattutto importa, la guerriglia partigiana). La distinzione non è solo biografica – è anche poetica. La scrittura dei poeti che non hanno attraversato la terribile esperienza della guerra eredita, da quelli che invece ci sono passati, il privilegio di una vitale speranza, ma al tempo stessoil dubbio di essere rimasti a fare un’opera in qualche misura attenuata; dubbio che forse i nostri nipoti potranno sciogliere, ma con il quale noi dobbiamo convivere. Roversi era, come tutte le forti personalità, anche un fascio di energie contrastanti. Contrasto, prima di tutto, fra ideologia e scrittura, e contrasto anche all’interno di questi due elementi: da un lato, fra la priorità etica e quella politica; e dall’altro, fra poesia polemica (al di là della logora etichetta di “poesia civile”) e poesia lirica. Tutto questo costituisce forse un’impasse? Certo che no: queste sono le componenti essenziali di ogni alta opera poetica, come appunto è quella roversiana.

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Il problema comincia con coloro che vengono dopo: i quali debbono – pena il conformismo e l’irrilevanza – affrontare la sfida di essere simili/diversi. Il nodo che Roversi, grazie alla sua statura morale, aveva potuto lasciare sullo sfondo, ma che poi non poteva non riemergere, era: come è possibile che uno scrittore o scrittrice (poeta, narratore, saggista, giornalista) dispieghi pienamente la sua voce pur restando in una posizione di continuità con il regime socio-politico dominante nella sua città – soprattutto una città come Bologna, sostanzialmente immutata in questo senso (a parte una parentetica eccezione che conferma la regola) da un settantennio? Ci eravamo un po’ tutti dimenticati che la voce di uno scrittore può anche situarsi fuori dal coro – e non solo nel senso di essere più “a sinistra” della “sinistra”. Di fronte a una situazione in cui la cerchia rossastra delle mura felsinee era cominciata a diventare un po’ soffocante, c’è stato chi è espatriato (auto-esiliato è forse troppo drammatico): o verso il vicino (per esempio, Adriano Spatola nella provincia di Reggio Emilia) o verso il lontano – addirittura oltreoceano; e c’è stato anche chi, dall’interno della città, ha cominciato a presentare una diversa visio mundi– una visione non limitata, appunto, alla poesia. Il risultato è che si è aperta una fenditura sotterranea fra la “sinistra” (diciamo così per mancanza di un termine più adeguato) e la “destra” (contenitore in cui si tende sommariamente a riversare tutto ciò che non appartiene alla sempiterna gauchepostcomunista). Di questa fenditura o faglia, nessuno parla esplicitamente – e forse è meglio così. Ma le conseguenze si avvertono, e vanno al di là della concorrenza fra diversi gruppi e gruppuscoli cittadini per attirare quel che resta del cosiddetto “pubblico della poesia”.

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Due infatti sono i miti con cui l’intellighenzia progressista cela, anche a se stessa, le realtà del ventunesimo secolo: che “gli intellettuali non esistono più” e che “non ci sono più né destra né sinistra”. In entrambi i casi è vero esattamente il contrario. Per ciò che riguarda gli intellettuali: essi hanno vinto perché, in un certo senso, son divenuti invisibili (anche a costo di evitarne il nome). Diventando comunicatori e uomini dei media, gli intellettuali si sono trasformati in qualcosa di più forte della vecchia immagine della stampa come Quarto Stato – si potrebbe dire che sono divenuti un Quinto Stato; nel senso che si trovano sostanzialmente allo stesso livello di, e in diretta competizione con, le altre strutture politiche ed economiche, per organizzare e modificare la società.

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Quanto alla destra e alla sinistra: queste distinzioni rugginose purtroppo esistono ancora, e sembrano destinate a durare a lungo. Ma allora il poeta, invece di declamare contro un mitico Potere con la maiuscola, potrà adoperare quelle briciole di potere che possiede per rivolgersi davvero a tutti gli interlocutori, al di là degli steccati ideologici. La pace della poesia non ha luogo nella proverbiale torre d’avorio, ma procede dall’interno verso l’esterno. All’interno è la pace di un lavoro continuo, autocritico, silenzioso; il quale poi si allarga alla società per provvedere un minimo di respiro dentro la confusione e la contraddittorietà del mondo.

Paolo Valesio

[Nella serata di giovedì 26 luglio alle ore 21 avrà luogo a Bologna, nello storico cortile dell’Archiginnasio, una lettura poeticadi gruppo sul tema: “La pace della poesia”]

 

 

 

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Poesie inedite

Queste poesie sono di prossima uscita in un’antologia edita da Qudulibri Bologna.

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Da L’Aureola del morso

 

La translinguistica signora

Mentre la pioggia intride
l’inadatto cappotto di lana
gli cola nel bavero e cala
un ozioso pensiero: tear
è una introiettata introflessa
rima di Maria
e associandosi a Maria
i pensieri si accavallano,
saltano dal gallo all’asino
si fanno sempre più oziosi:
quando la preghiera diviene
(così spontanea viene)
un racconto

Dio per sua natura le conosce già tutte (presumibilmente solo il tono è quello che lo interessa) ma quando uno racconta-prega rivolgendosi per intercessione a Maria la quale (salvo errore) non è onnisciente è probabile che per lei questo racconto sia una novità è probabile che lei tenda l’orecchio con autentico interesse è probabile che le parole bagnate di pioggia fino ad assomigliare lacrime riescano ancora un poco a intenerirla per quanto piccine-umanine siano le preoccupazioni

così che questa volta tear
trova una rima facile, estroflessa:
dear

destinata ai pesciolini che si cuociono dentro la padella dove le lacrime dovrebbero bollire ma non ci arrivano per via della pioggia la quale però anche se invernale è oggi stranamente carezzevole e insinua furtiva un annunzio di primavera.

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La sguardata

Maria ai piedi della croce crìstica
si metamorfosa in Maria dritta in piedi
a lato della pompa di benzina
mentre abbevera la sua jeep;
o è forse the other way around:
chi è rapita in basso, chi nell’alto –
qual è la differenza?
Lui può dire soltanto
che ha sentito una grande tristezza
per qualche cosa che si dileguava 

anche per colpa sua: non si è voltato mentre girava il muso dell’auto per lasciare la spiazzo e rientrare in autostrada (è sempre un po’ difensivo riguardo alla sua guida e non voleva fare una brutta figura di fronte a quella figura) così non conoscerà mai il messaggio nello sguardo di Maria in effetti non saprà mai se neppure vi fosse stato uno sguardo mariano su di lui come gingillo di una severamente asseverante protezione o forse benevolente condanna.

Autostrada Ottanta, Connecticut

 

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«Si metamorfosa in Maria dritta in piedi / a lato alla pompa di benzina»

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Tentando di afferrare un’intuizione

“La fiamma è bella!”

(Mila di Codro)

Lui prega che si rafforzi
questa intuizione sua –
che la cenere è bella
almeno quanto la fiamma
e anche quando la Fenice è assente –
e si trasformi in un convincimento

ma dove risiederebbe poi questo convincimento? Qual è la sua parte di mondo la sua radice la sua appartenenza? Aveva intravisto come sua sede il regno dell’estetica ma si è disilluso quando ha cominciato a sentire che si stava impigliando dentro reti di parole fragilizzate (il colore perlaceo o di velluto nero, le ceneri come diamanti pesti cose così) – dunque no. Questa convinzione delle ceneri (che lui sta ancora tentando di abbracciare con la mente) risiede in periferia – nella cintura extraurbana che scivola molle sui fianchi che ancheggiano nel lusso della città – nella suburra dell’umiltà – dove vi è una pallida una tenue possibilità che la deiezione e reiezione possano protendersi pretendendo una speranza di elezione.

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Gerarchie

Iddio non fa carezze
e il Figlio nemmeno e nemmanco
lo Spirito Santo
e poi nemmeno gli angeli ne fanno

peccato perché costoro sarebbero gli ideali facitori di carezze (o comunque ne sono gli ispiratori) infatti mentre il sesso è paritario – è sempre essenzialmente qualunque siano le contorsioni erotico-kamasutriche un rapporto orizzontale – la carezza è gerarchica va da un alto a un basso e viceversa ecco perché la Trinità e gli angeli sarebbero le ottime fonti della carezza – ma in verità solo nel senso che ne sono le fonti ideali infatti queste figure dell’alta santità ispirano i genitori quando si curvano a carezzare i bambini – e i bimbi quando si sollevano (quanto raramente! e facendosi pregare) a far carezze ai genitori – e le adulte non genitoriali quando riescono apologeticamente difensivamente a fare una carezzina ai bambini non loro ai bambini alquanto resistenti renitenti.

Laghetto di Linsley

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Spazzatura Party

“So che questo è un preavviso molto scarso ma primavera e Pasqua sono in arrivo allora pensavo se per caso voi gente sareste disposti e disponibili a un breve incontro (diciamo un’ora?) il sabato che viene. Potremmo radunarci alle ore 9 di fronte al cottage di Bob (per favore procuratevi guanti e buste per la spazzatura) discutere il piano di Tom per sfoltire il prato e poi passare il tempo che ci resta a raccogliere i detriti caduti o buttati dall’autostrada lungo l’orlo del campo. Per favore fatemi sapere che cosa ne pensate – al più presto possibile. Riempite la parte inferiore del foglio (‘Idea buona/idea non buona’; ‘non posso farlo sabato/alternativamente suggerisco la data del____’) e mettetela nella mia buca delle lettere – saluti – Judy”.

Laghetto di Linsley

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La cintura esplosiva

Un errore che sia al tempo stesso prepolitico e postpolitico può facilmente trasformarsi in un orrore – con il (quasi) paradosso dell’orrore che non si limita a restarsene là fuori accovacciato come un drago fangoso ma diventa elemento pensante dentro una singola coscienza così acquistando mostruosamente una sua dignità che come altro si può chiamare se non spirituale?

Ecco per spiegarsi tutto questo – lui si sente ob-ligato a tradurre di seconda mano (dall’inglese del “New York Times” che presumibilmente viene dall’arabo) il messaggino cellulare inviato da S.A. al fratello S. alle ore 21,05 di un mercoledì sera e il giovedì seguente S.A. si fa esplodere giù in città):

“Vi abbiamo perduto.
Se fosse in poter nostro
verremmo a voi
(verremo a voi)
nel mezzo del sogno.
Non sappiamo se la nostra mancanza
sarà da voi avvertita”.

Laghetto di Linsley

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