Riporto qui l’editoriale del numero in uscita della rivista “Italian Poetry Review (IPR)” perché questo testo si trova ad avere per me, in queste settimane che stotrascorrendo a Bologna, una risonanza inaspettata e abbastanza urgente, che vorrei condividere.Una piena immersione nel mondo delle letture e iniziative poetiche a Bologna rivela segnali contrastanti. Da un lato c’è un fervore di attività, che rappresenta un forte desiderio di poesia e che si esprime con interventi (sia poetici sia critici) generalmente molto buoni; accade dunque spesso che chi presenta tali iniziative congratuli – legittimamente e giustificatamente – tutti i protagonisti di questo fenomeno, e di riflesso la città, per questo rinnovato culto dell’espressione poetica. Dall’altro lato, quello che viene taciuto è che la situazione poetica a Bologna è ancora troppo dominata dagli ideologismi che hanno aduggiato la giovinezza di molti di noi, e dei loro primi tentativi poetici.La difesa della libertà d’espressione contenuta nell’editoriale potrebbe apparire generica senza il contesto locale che si è appena delineato (e che sarebbe interessante comparare con i contesti di altre città italiane grandi o piccole): si deve constatare ancora una volta che la libertà d’espressione – in poesia e non solo – non può mai essere data per scontata.
PAOLO VALESIO
Il forum dell’umanità
«I politici: coloro che dividono e dominano;
i poeti: mediatori e servitori»
– Etty Hillesum, Diario 1941-1943
«“We never asked for it
or wanted anything to do with it”.
Yes, we did –
because as individuals we want power,
So do we collectively.
And the present international posturing is merely
delaying the inevitable price»
– William Congdon, Death and the True
Survival [Faenza, Winter 1945],
in «Italian Poetry Review [IPR]», VI, 2011
Rileggendo le bozze di questo numero di «IPR», mi rivengono alla mente alcuni punti della breve dichiarazione programmatica che Alessandro Polcri e io scrivemmo congiuntamente per «Ungarettiana» – la collana di poesia, traduzioni e saggi collegata a «IPR» – e ne estrapolo (con considerazioni che restano mie personali) alcuni punti. La frase conclusiva di quel testo: «saranno i poeti che sceglieremo a condurci là dove ancora non sappiamo di voler andare» mi sembra positivamente confermata finora da ogni volume di «Ungarettiana» e da ogni numero di «IPR» – rivista fenomenologicamente aperta e non di tendenza (dunque non tendenziosa). Là dove, d’altra parte, noi descriviamo la nostra ricerca di una poesia che non sia «un eccesso di esistenza al ribasso», io naturalmente resto di quel parere ma avverto una persistente difficoltà nell’individuare questa poesia, perché prevale oggi nella poesia italiana (o io m’inganno) qualcosa per cui uno vorrebbe evitare termini ormai triti come “minimalismo”, “intimismo”, “crepuscolarismo” – ma allora, che parola usare? Perché, ci piaccia o no, questo qualcosa continua a far sentire una certa sua vischiosità.
In quella dichiarazione noi esprimiamo anche la convinzione che «la poesia sia in prima istanza ricerca di linguaggio e linguaggio della ricerca» – e ciò può servire come primo orientamento. Quella frase ha il vantaggio e insieme il limite della figura retorica che essa realizza, l’antimetabole: essa, cioè, concentra vivacemente un ragionamento e al tempo stesso corre il pericolo di bloccarlo (come accade anche nella retorica della filosofia – e penso per esempio a «il fenomeno dell’essere e l’essere del fenomeno» di cui disquisisce Sartre all’inizio del suo classico del 1943, L’essere e il nulla).
La poesia come ricerca di linguaggio è necessaria ma non sufficiente, una volta decaduta l’utopia di critica sociale con cui le varie neo/post-avanguardie e i vari sperimentalismi si proponevano di offrire una giustificazione ultima a tale ricerca; meglio concentrarsi, dunque, sul secondo sentiero. A patto che il linguaggio della ricerca non si ripieghi su se stesso in quanto gergo ricercante (altrimenti l’antimetabole diviene, appunto, un serpente che si morde la coda). Insomma, una volta assodato come la poesia che vale la pena di (ri)leggere e di pubblicare esprima un impegno di ricerca, di che cos’è poi che si va alla cerca?
Qui il critico dovrebbe guardarsi dal legiferare: a lui/lei basta che la poesia ch’è di volta in volta in questione (e che abbia già meritato e richiesto attenzione in quanto ricerca di linguaggio) contenga un impulso a trascendere se stessa, andando oltre la datità del suo stesso testo. Ricerca non facile, soprattutto in una situazione come quella italiana nella quale (a differenza di ciò che di solito accade nell’altro contesto di particolare interesse per «IPR», cioè quello americano) ancora troppo spesso si erigono steccati ideologici di vario tipo.
È dunque più importante che mai essere chiari. «IPR» è interessata a tutti i filoni di ricerca poetica: epica e quotidiana; monolingue, dialettale e mistilingue; spiritualistica e materialistica, mistica e profana; simbolistica, “decadentistica” e sperimentalistica; razionalistica e irrazionalistica; “civile” e “incivile”; ecc. ecc. Insomma, la strategia di «IPR» resta fedele al senso etimologico del termine rivista. È nostro dovere (e piacere) accogliere le voci più diverse, purché soddisfino – sia concesso ripeterlo – le esigenze di un’autentica ricerca linguistica; dunque noi accogliamo volentieri (come si può constatare leggendo i vari numeri di «IPR») anche le voci che ho provvisoriamente, e imprecisamente, chiamato minimalistiche, salva restando la persistenza della nostra ricerca.
Ma ciò che qui è in gioco va ben al di là della linea (o calcolata non-linea) di «IPR»: si tratta del concetto stesso di critica. La critica, descrittiva e non prescrittiva, che più conta non è socialmente qualunquistica né epistemologicamente eclettica; è semplicemente una critica che coltiva il principio della libera espressione individuale – un valore etico da cui dipende tutta l’impresa della letteratura, e che era rimasto un po’ offuscato nell’orgia intellettualistica della critica letteraria italiana degli ultimi decenni.
La rivista ha ospitato («IPR», VI, 2011) una tavola rotonda sul tema “Critica militante?” – e vorrei sottolineare, al di là dell’interesse di quella discussione, il punto interrogativo nel titolo scelto dalla redazione. Non si tratta di abolire ogni distinzione tra critica militante e critica accademica (o termini equivalenti), perché questa differenziazione conserva una – limitata – utilità empirica. Ma sostanzialmente non esiste una posizione mentale che si possa definire come militante rispetto a una posizione accademica ovvero universitaria: esiste il critico letterario, punto. Anzi no: la sola posizione che abbia veramente un senso è quella del critico senza aggettivi.
“Critico” è un termine spesso frainteso, come se si trattasse di una sorta di istituzionalizzazione della pedanteria (critica accademica) o del brontolìo (critica militante) – così che “critico” rischia di divenire altrettanto obsoleto di un’altra parola sua analoga: “intellettuale”. Invece quella del critico è una nobile funzione: appartiene a colui/colei che tenta di discernere (san Paolo [1 Cor 12, 10] parla di discernimento degli spiriti) tra le più varie situazioni, nell’arte così come nella vita: vita dell’anima e del corpo, della società e del mondo. All’ipercitato verso di Hölderlin, «A che i poeti, nel tempo bisognoso?» (frase della quale, qualunque sia il suo significato esatto, si può dire almeno che non enunci semplicemente una rinunzia o una disfatta) si può bene affiancare una variante: «A che i critici, nel tempo bisognoso?».
La poesia è forse l’unico spazio oggi rimasto dove abbia ancora una sua plausibilità la figura dell’intellettuale come commentatore e battitore libero. Egli non solo può dare direttamente voce a certi valori, ma anche fungere da mediatore/mediatrice per trasmettere altre voci: la poesia, insomma, come forum dell’umanità e comunicazione dell’umano, in collegamento senza pretese di dominio con le varie altre forme artistiche.
Il poeta difende la libertà di espressione. Una certa abitudine polemico- politica (contagiosa anche per chi la politica non la fa) è incline a biasimare gli atteggiamenti difensivi, come se fossero sempre una forma di debolezza. Ma la libertà d’espressione non esiste pienamente, e non è mai completamente esistita, in nessun luogo fino ad ora. Chi dunque coltiva tale libertà (non solo il poeta, ovviamente, ma il poeta in modo particolare) si trova sempre prima o poi con le spalle al muro: è ridotto alla difesa, e in questa resistenza è vano tentare di marcare troppo nettamente il confine fra passività e attività. (Continua a echeggiare il “Preferirei di no” del protagonista di Bartleby lo scrivano di Herman Melville.)
Il poeta non si vergogna affatto di essere un pensatore difensivo, un resistente passivo; ciò che, al di là della vergogna, uccide la poesia è invece cedere ai clichés che danno soltanto l’illusione della libertà espressiva. Uno dei più miserevoli tra essi è l’etichetta del “politicamente corretto”: questa frasetta, che viene di solito pronunziata con un sorrisino di apparente distacco, accetta il conformismo nel momento stesso in cui finge di distanziarsi da esso. E un’altra forma di elusione è la protesta contro il cosiddetto pensiero unico – paravento dietro cui di solito si cela chi si limita a opporre il pensiero “unico” della sua tribù al pensiero “unico” della tribù avversa, con il risultato che il pensiero così chiacchierato si rivela tutt’altro che unico.
È il poeta ad avere un pensiero veramente Unico, è il poeta che è veramente il Singolo – e queste maiuscole vorrei chiamarle maiuscole della modestia. Dove il paradosso è soltanto apparente: quando il poeta accetta (oso dire: si rassegna a) l’unicità e singolarità radicale del suo linguaggio, lui/lei si colloca in una posizione che non è più quella del vate: il suo è un contributo dialogico – in dialogo con gli altri cittadini – alla vita della polis. E il passo citato in esergo sui politici e i poeti – in omaggio al talento eroicamente dispiegato della giovane martire Etty Hillesum – è poetico nella drasticità iperbolica del suo contrasto, ma semplifica una situazione che è molto più aggrovigliata. La poesia in quanto libera è libera anche di parlare dell’oro e del potere senza moralismi. (Poetare è anche, scusandomi per il bisticcio, una forma di poe-tere.)
Quando peraltro, nella vita dei singoli come in quella delle comunità, cade com’è inevitabile che prima o poi avvenga l’illusione della comunicazione piena – l’illusione che esista fra gli esseri umani qualcosa come un intendimento completo – la reazione oggi più diffusa sembra essere una qualche forma di mutismo o almeno di taciturnità; si accetta una condition humaine fondata in generale sul fraintendimento, interrotto ogni tanto da momenti di positivo fra-intendimento. Aleggia nel mondo una stoica rassegnazione a questo stato di cose, che si potrebbe chiamare di comunicatività minima.
Fra i gruppi più o meno vasti che – in vari modi, e sulla base di differenti valori – si rifiutano a questa accettazione c’è quello di coloro che non hanno perso il senso della vita interiore; e tra essi gli scrittori, e soprattutto i poeti, si distinguono non per una superiorità elitaria, ma per la loro peculiare strategia. Il loro più utile segreto è il modo in cui essi riescono a non vivere come inconciliabili l’esperienza del silenzio con quella del dialogo; segreto utile in quanto mantiene aperta una via, stretta ma essenziale, di comunicazione. Segreto poco segreto, in verità, perché sta sotto gli occhi di tutti: il/la poeta circonda le parole di silenzio (per esempio i famosi spazi bianchi sulla pagina, a volte ingiustamente irrisi, che circondano le righe dei versi). Il discorso silenziario del poeta è uno dei modi fondamentali (non l’unico) in cui – lasciando, per così dire, riposare le parole ogni tanto – si può ridare speranza alla comunicazione.
Il poeta aiuta a fra-intendere anche perché aiuta a (diciamo così) tra-udire, in un modo analogo a quell’intra-vedere che fa parte della nostra esperienza di opere d’arte. (Come dice la pittrice Giosetta Fioroni in questo numero: «la pittura non si limita ad accompagnare la poesia, ma ne potenzia i simboli, ne trasfigura gli oggetti».) Il poeta tra-dice; e quando così ci si esprime, non si può evitare l’incontro (produttivo di senso come di solito le paronomasie) fra questo tra-dire apparentato a un tra-udire, e la parola tradire.
Il problema del tradire è anche il pericolo di ogni ermeneutica – un pericolo che esorta indirettamente all’umiltà come requisito fondamentale di ciascun atto interpretativo. «Tradizione uguale tradimento», scrive Filippo Tommaso Marinetti in una delle sue ultime prose poetiche. Certo, si tratta di un’iperbole, e la situazione effettiva non è così drastica. Ma questo pensiero ci ricorda che – nella storia della poesia come negli altri tipi di storia – la concatenazione delle idee, delle istituzioni discorsive, delle convenzioni ecc. non è mai qualche cosa di pacifico e dato una volta per tutte. (E a questo punto comprendiamo che il ripetutissimo e apparentemente trito motto italiano “Traduttore traditore” è in realtà un pensiero a molti strati.)
Questi scavi linguistici (così come l’accenno fatto sopra alla vita interiore) non debbono essere fraintesi come la caratterizzazione di un’esperienza puramente privata – e si è già parlato della polis. Il poeta scavalca i confini sociali, attraversando la sua società per dirigersi in ultima analisi al mondo, e così facendo corre vari rischi; come testimonia in questo numero il poeta iracheno Sinan Antoon tradotto da Ramona Ciucani, i cui versi si riallacciano in un certo senso alle prose poetiche di William Congdon nel numero precedente di «IPR».
Quest’ultimo, un pittore che scriveva anche prose poetiche, offre un alto esempio di impegno artistico con i versi citati in esergo – versi scritti in tempi, come s’usa dire, “non sospetti”, cioè all’indomani della vittoria alleata sul nazifascismo; e che in versione italiana suonano: «“Non l’abbiamo mai preteso / né abbiamo mai voluto aver nulla a che farci”. / Sì invece che l’abbiamo voluto – /perché, come desideriamo il potere in quanto individui, / così lo desideriamo in quanto collettività. / E le presenti pose internazionali stanno soltanto / ritardando l’inevitabile prezzo da pagare».
Ecco un esempio di poesia che, come dice uno dei più bei motti della Società degli Amici (i Quakers), «speaks truth to power» (dice la verità in faccia al potere). È relativamente facile (anche se sempre lodevole) esprimere in poesia pensieri generali di pace, oggi; ma era molto più difficile criticare la brama di potere – che nasce dalla brama dentro ognuno di noi – fra gli appena vincitori della Seconda Guerra Mondiale.
Tutto ciò ci riporta all’antimetabole di cui si parlava all’inizio. Rispetto a ogni analisi che metta a fuoco la poesia in quanto ricerca di linguaggio (come per esempio accade nei densi, meditati saggi di Giorgio Luzzi e Corrado Confalonieri in questo numero della rivista), io sento di dover continuare a insistere sulla poesia come linguaggio di una ricerca. Che è in ogni caso ricerca del mondo: nella sua finitudine, nella sua divina sporcizia (senza rifiutare l’eco di quella categoria pasoliniana che si esprime nel titolo Divina mimesis).
La poesia trascende sempre se stessa in quanto prodotto linguistico – con un trascendimento che è un moto dal concreto e finito del testo al finito e al concreto del mondo, con barlumi o promesse d’infinito. È vero peraltro che in alcune esperienze di poesia, anche contemporanee, tale trascendimento diviene propriamente ricerca della trascendenza – ma questa è un’altra storia.