Archivi del mese: gennaio 2018

POESIA VISIONARIA

Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il  7 gennaio 2018 col titolo “Poesia, la vendetta di d’Annunzio e Pasolini”.
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Una branca dei “tutto-un-po’”

POESIA VISIONARIA

Alla domanda: “Chi sono i non-specialisti che per mestiere si occupano di tutto un po’?”, molti di noi risponderebbero: “I giornalisti” – anche senza adottare necessariamente un tono ironico (che infatti non è quello del sottoscritto). Una società democratica ha molto bisogno di scrittori e scriventi generalisti; però se fossero soltanto i giornalisti ad assolvere questo ruolo, la società sarebbe pericolante (come infatti è). Il pericolo sono le gabbie ideologiche, a volte poco visibili ma presenti in moltissimi prodotti giornalistici e saggistici. Fra queste sbarre, quel “tutto-un-po’” che a prima vista appare felicemente libero, finisce col rivelarsi costretto e ristretto.

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Non-specialisti negli anni

Ma esistono dei generalisti ben diversi – generalisti che sembrano destinati a infrangere le sbarre di tutte le gabbie ideologiche, e offrirci un più profondo senso del tutto-un-po’: questi generalisti sono (dovrebbero essere) i poeti. Il tutto-un-po’ (è bene precisarlo) non è il “tutto”: quest’ultima è una categoria astrattamente metafisica e non circumnavigabile; mentre il tutto-un-po’ è un’area tanto pittoresca quanto poco definita: quella delle analogie e delle metafore, dei salti di palo in frasca, delle intuizioni fulminee, delle associazioni di idee. Insomma, il territorio di caccia favorito dai poeti.

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I bohemiennes italiani

E invece, che stanno facendo i poeti oggi in Italia? Per spiegarci in breve, potremmo eseguire una variazione sul titolo di un pamphlet che criticava tutta una situazione di pensiero: quello pubblicato da Immanuel Kant nel 1796, Di un tono da gran signori adottato di recente in filosofia, e riecheggiato poi (1983) da Jacques Derrida: Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia. Ecco, nella situazione italiana si potrebbe creare un nuovo titolo di pamphlet-da-non-scrivere, passando dalla filosofia alla poesia (si tratta comunque di due sorelle), che suonerebbe così: “Di un tono dimesso adottato di recente in poesia”.

LIBRO

Tono che, va detto subito, di per sé è accoglibile, in quanto genera tanta poesia raffinata. (Della poesia, con rispetto parlando, si può dire quello che una volta si diceva del maiale: da tutto il suo corpo si può estrarre nutrimento.) Ciò non toglie che si senta la nostalgia per la poesia visionaria del tardo Novecento, con le sue declinazioni di pensiero (non di mera ideologia) tanto diverse fra loro come quelle di Pier Paolo Pasolini, David Maria Turoldo, Giovanni Testori. Tutti poeti che hanno anche avuto, talvolta , punti di caduta – ma la poesia vive nella concretezza degli sbalzi di pensiero e di linguaggio – e però ci hanno consegnato vaste visioni del mondo.

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Il nuovo millennio ha bisogno di una rinnovata poesia della visione, accanto alla poesia della cosiddetta “realtà”, cioè la poesia della semplicità dimessa che dipinge acquerelli smorzati. (Per non parlare dell’abbastanza noiosa poesia detta “civile”, che oscilla fra l’indignazione moralistica e la polemica partitica). I dizionari di citazioni riportano ancora la frase vergata dal genio di Percy Bysshe Shelley (nel suo grande saggio Una difesa della poesia del 1821) sui poeti come misconosciuti legislatori del mondo; e leggiamo ancora con rispetto la cosiddetta Lettera del Veggente (siamo già nel 1871) di Arthur Rimbaud. Ma poi tanti nostri cantori del dimesso si concedono il lusso di sogghignare sulla posizione di veggente che Gabriele d’Annunzio, vero fondatore della poesia novecentesca, era riuscito a guadagnarsi (come ben sapeva il citato Pasolini, poeta non-dimesso, che sente l’ansia dell’influenza dannunziana anche se la tiene ben nascosta).

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Ma ciò che qui è in gioco va ben al di là della storia letteraria, ed evoca una particolare possibilità di “collaborazione” indiretta dei poeti con i giornalisti, i saggisti, i politologi. La visionarietà dei poeti, infatti, può stimolarci a parlare dello stato delle cose oggi in un modo che sfidi con un po’ di coraggio i vari luoghi comuni correnti: può aiutarci per esempio a guardare da una prospettiva nuova il periodo della presidenza Trump (che ha cambiato in modo definitivo la storia politica degli Usa); e può – per portare un altro e più vicino esempio – indirettamente esortarci a cambiare un pochino le abituali omelie sull’Europa, la quale intanto si è frammentata (anzi no: si è articolata) in Europe. La poesia, certo, non può letteralmente prescrivere leggi all’Europa o alle Europe (e ovviamente nemmeno Shelley aveva in mente un’idea così ingenua). Però la poesia oggi potrebbe, nei suoi imprevedibili modi (di fronte ai quali dobbiamo essere sempre pronti a lasciarci sorprendere), contribuire a salvare ciò che resta di quel qualcosa che si potrebbe chiamare lo spirito europeo.

 – Paolo Valesio

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Evviva lo spirito europeo!

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IL BORGO ESTERNO

   Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilsussidiario.net”  del 30 dicembre 2017 col titolo “INCENDIO A NEW YORK / Nel Bronx, l’America dei poveri esiste ancora”.
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La vista dal Bronx

IL BORGO ESTERNO

Il viaggiatore a cui capitasse di appisolarsi nell’ultimo quarto d’ora del suo viaggio in treno dal capolinea di New Haven nel Connecticut si risveglierebbe d’improvviso nel luccichìo di Grand Central Station a Manhattan (l’altro capolinea), avendo mancato le ultime due fermate intermedie.

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Il luccichìo di Grand Central Station

Così potrebbe cominciare un lungo romanzo in stile dickensiano (se ne scrivono ancora, su New York, e resistono a tutte le mode, proprio come New York). Ma lasciamo perdere i romanzi; quelle due ultime “trascurabili “fermate prima di Grand Central si chiamano “Fordham University” e “Centoventicinquesima Strada”. A entrambe le stazioni scende una mescolanza di media e piccola borghesia con venature bohémien (gente per lo più giovane o almeno giovanile, di quella illusoria giovinezza con cui gli studenti contagiano i loro professori) e di “sottoprivilegiati” come usa dire qui (insomma, borghesia piccolissima e semi-poveri). E così, quando il treno irrompe dentro gli enormi tunnel di Grand Central, sono rimasti quasi soltanto i borghesi medio-alti, quelli che possono permettersi gli affitti semi-pornografici di Manhattan.

La stazione chiamata Fordham University si trova nel Bronx, e forse non moltissimi sanno che nel Bronx ha sede la maggiore università privata di New York dopo Columbia e New York University (entrambe private) – o più precisamente vi risiede uno dei suoi due campus, quello idillicamente chiamato “Rose Hill”. E in effetti, l’ambiente là è idilliaco: parco ben pettinato, edifici neogotici – un po’ come l’Università di Yale. D’altra parte, come il solenne campus di Yale è circondato da quella zona abbastanza povera e abbastanza dura che è il centro di New Haven, così il campus di Fordham nel Bronx sorge a poca distanza dal luogo dove è scoppiato il massacrante incendio di cui ancora non si conoscono tutti i dettagli. Ma che non è troppo azzardato ipotizzare sia stato causato da un incidente a un apparato elettrico o conduttura del gas non a norma – insomma, da uno di quegli accrocchi con cui si arrangiano i più poveri, e che risultano particolarmente pericolosi nelle rigide notti d’inverno, come quelle che hanno già cominciato ad apparire a New York. Ed è possibile che l’incendio sia stato doloso. (Anche qui, due ipotesi: o un’azzardata speculazione finanziaria, oppure – sembra folle, ma sono storie di ordinaria follia – una vendetta di clan familiare o di gang giovanile.)

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L’idillico “Rose Hill” campus della Fordham University nel Bronx

Dicono (ed è vero) che il Bronx non è più quella sorta di cratere bombardato che era negli anni Settanta; adesso vi circola e vi lavora tranquillamente quasi un milione e mezzo di newyorchesi. Dicono (ed è vero) che il Bronx è la sede di alcuni dei luoghi più affascinanti e prestigiosi di New York City: oltre la citata Fordham University (con le sue eccellenze giuridiche e l’impronta studiosa delle sue origini gesuite), il mitico Yankee Stadium, lo Zoo (forse il più grande zoo urbano negli Stati Uniti), l’Orto Botanico.

Ma che significa poi tutto ciò, in una notte d’inverno come questa, quando le scale antincendio (che vanno zig-zagando lungo le facciate di tanti edifici, anche a Manhattan, e in primavera-estate servono a berci una birra in compagnia o a sistemarci piantine) diventano il percorso di fughe disperate? Qui siamo pur sempre in uno di quelli che (con un linguaggio involontariamente di casta) si chiamano a New York “i borghi esterni” (the outer boroughs), ovvero le quattro suddivisioni amministrative (Il Bronx appunto – dove l’articolo determinativo è parte orgogliosamente integrale del nome – e poi Brooklyn, Queens e Staten Island) che fanno da corona a Manhattan: è rispetto a quest’ultima, appunto, che i primi quattro sono distinti un po’ schifiltosamente come “esterni”.

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“The Bronx Is Burning”

La maggior parte dei manhattaniti, quando visitano Il Bronx, scendono alla fermata della metro accuratamente scelta e vanno svelti verso uno di quei luoghi privilegiati. (Ricordo che, in uno dei miei primi anni a Manhattan, quando mi attardai un poco passeggiando con una collega lungo una di quelle strade, un anziano afroamericano ci guardò sorridendo ed esclamò con bonaria ironia: “Ehilà, oggi abbiamo dei turisti fra noi!”). Ecco: in notti come queste i rapidi cambiamenti di ambienti, di microcosmi interi, che costituiscono una delle grandi fonti di fascino di New York City, rivelano anche il loro risvolto crudele.

– Paolo Valesio

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Le macerie del Bronx di un’altra epoca

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