Archivi del mese: novembre 2018

PARADOSSI DEL SENSO COMUNE

Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il  6 novembre 2018 col titolo “Paradossi del senso comune”.

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PARADOSSI DEL SENSO COMUNE

Esistono espressioni come: “È logico”, o: “È una questione di senso comune”, che appaiono proprio nei momenti di maggior confusione e potenziale irrazionalità; per esempio, nel corso di una discussione politica: così che si potrebbe dire che il modo stesso in cui queste parole sono usate venga di fatto a svuotarle. Ma le cose non sono così semplici (semplici lo sono, in realtà, solo per i critici razionalistici della politica). Per esempio, si può sostenere plausibilmente che è “logico” che Donald Trump vinca le prossime elezioni di medio mandato – basta tradurre “logico” con: “coerente, conseguente”. C’è una strategia forte e chiara, infatti, nei discorsi di Trump in questi giorni decisivi; ed è una strategia con tutte le carte in regola per vincere (che poi ciò accada o no, ha a che fare con quella non-consequenzialità che, nella storia, è sempre in agguato). Quanto al senso comune o buon senso, uno dei chiarimenti fondamentali è quello che si trova a un certo punto del Discorso sul metodo di Cartesio del 1637, cioè non molto tempo dopo la fondazione della prima (Virginia, 1607) e della seconda (Massachusetts, 1620) colonia inglese in Nordamerica. Avendo constatato che “la facoltà del buon giudizio” è “uguale per natura in ogni uomo” e tuttavia questo sembra esser smentito dalla “diversità delle opinioni”, Cartesio opina che ciò derivi dal fatto che “noi non consideriamo le stesse cose”.

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A tutto questo rifletteva lo spettatore di alcuni discorsi di Trump in questi giorni, dove si batte e ribatte sull’evidenza del “senso comune” come criterio della validità delle sue tesi. Ma già chiamare le sue affermazioni “tesi” fa torto alla grande abilità retorica di Trump: le sue non sono “tesi” astratte – sono immagini. Come quella della “Carovana” (termine martellante nei suoi discorsi) che avanza verso il confine col Messico.  È una parola che evoca qualcosa di povero, disordinato, nomadico, selvaggio – cioè tutto quello che il suo elettorato ha in profonda antipatia (sono lontani, i tempi del Far West!), e non ha alcuna esitazione a dichiararlo; ma che anche a gran parte dei Democratici non piace affatto – solo che loro non vogliono ammetterlo. Ed è per questo che stanno perdendo: perché eufemizzare se stessi (per quanto moralmente lodevole in tanti contesti) rende più difficile la comunicazione con gli altri, mentre esprimere se stessi senza troppe censure (per quanto moralmente primitivo questo possa risultare, in altri contesti) realizza una comunicazione istantanea.

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Che cosa c’entra (uno si potrebbe chiedere a questo punto) comparare, come in una sorta di Wikipedia impazzito, le date di un autore francese con quelle delle prime colonie inglesi nel Nuovo Mondo? Beh, era soltanto un modo di alludere all’intreccio, è il caso di dire, inesorabile tra la storia europea e quella statunitense; intreccio al quale gli Usa hanno sempre tentato, e ancora tentano, di sfuggire. Ma non vi riusciranno mai. Quando Trump grida “Common Sense” egli ripete, e non importa se lui se ne renda conto o no (non c’è nulla di più sciocco che fargli esami scolastici), il titolo del più famoso pamphlet nella storia degli Stati Uniti: quel piccolo libro del 1776 (l’anno della cosiddetta “Rivoluzione” americana contro l’Inghilterra) scritto da un inglese, Thomas Paine; libriccino che, come fu detto allora, risultò decisivo per la lotta d’indipendenza, tanto quanto l’esercito di Washington.

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Si può dire che, come la rivolta delle colonie nordamericane anticipò la Rivoluzione Francese, così gli attuali sviluppi politici in Usa ci mostrano il futuro prossimo dei conflitti politici in Europa: un populismo “duro” (o hard) contro un populismo ”morbido” (o soft). Conflitto dove l’Europa gode del vantaggio del proprio svantaggio: perché l’Europa ha perso da una settantina d’anni le proprie illusioni imperiali, mentre gli Stati Uniti ce le hanno ancora. Il conflitto tra il populismo duro dei Repubblicani e il populismo morbido del Democratici è un epifenomeno: entrambi i partiti tentano di ritardare il momento (fra un decennio o giù di lì) in cui il popolo americano smetterà di contare i suoi costosi giocattoli militari e si renderà conto di non essere più la prima potenza mondiale. Trump tenta di ritardare questo momento sviluppando un discorso che è fondamentalmente nostalgico (anche se fa la voce grossa); ma almeno, come si diceva, è chiaro e compatto. I Democratici invece tentano di ritardarlo con – che cosa? Non si capisce bene, ma è un discorso esitante, perché dà un colpo al cerchio e uno alla botte. In ogni caso, quello che è in gioco in questi anni va bene al di là delle manovre elettorali. La “conversazione” (come amano dire i politologi americani) che è cominciata travalica queste manovre: si tratta di gestire la fine di un impero.

Paolo Valesio

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CODEX ATLANTICUS XVI: Bologna, 27 maggio 2017

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CODEX ATLANTICUS XVI

Bologna, 27 maggio 2017

Un altro passo di romanzo:

«S’era ingrassata, e nel suo corpo gracile di bambina cresceva un corpo diverso, più colmo e vistoso. I fianchi, in ispecie, le sporgevano con una sorta di ostentazione involontaria, e le accompagnavano il passo con un dondolìo di danza lenta, quale si vede in certe giovane africane. Il ventre, dopo l’ultima gravidanza, non aveva più ripreso la sua piattezza verginale, e le si rilassava in una turgidezza pigra, visibile sotto la gonna stretta. Anche le mammelle, sempre piuttosto piccole, ma fatte ora più molli, le pendevano libere. E queste sue forme, non contenute da fasce o busti, davano al suo giovane corpo un senso di abbandono o di languore. In lei si svolgeva una qualche azione subdola e cruda, a cui la sua materia si assuefaceva servilmente. Le sue guance, piene e rotonde per natura, sembravano cedere un poco al proprio peso, e si rivelavano, specie nel pallore, di una pasta piuttosto densa e granulosa, non così fresca e tenera come una volta. Il loro colore ne appariva più bruno, e abitualmente erano piuttosto pallide; ma qualche volta fiorivano di un rossore opaco, somigliante a una bruciatura»

Questo è uno dei tanti ritratti di Ara Coeli, la co-protagonista eponima del romanzo di Elsa Morante del 1982, vista attraverso lo sguardo del co-protagonista/narratore, suo figlio Manuel [cito secondo l’edizione Einaudi dell’82, poi più volte ristampata, nella collana ET Scrittori, alla pagina 233.]

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Si potrebbe, a proposito di sguardo diretto sulla realtà, confrontare questa descrizione di figura femminile con quella citata sopra da un romanzo di Piero Chiara; uscito proprio nell’anno in cui pare che la Morante cominciasse a lavorare a quello che sarebbe poi rimasto il suo ultimo romanzo, cioè appunto Ara Coeli.

Ma non è il caso di svolgere una comparazione “accademica” – che, come spesso accade con simili comparazioni, sarebbe essenzialmente priva di senso – fra Chiara e la Morante. È inutile, per esempio, discettare su narratori “minori” (come Chiara) e “maggiori” (come la Morante): sono distinzioni che riescono a essere al tempo stesso ovvie e false, dunque irritanti; sono, insomma, scolastiche.

Quello che qui vorrei osservare è un fenomeno diverso: perfino un critico universitario potrebbe esser tratto in inganno dalla lettura di una pagina come quella citata dalla Morante, e attribuirla a Gabriele d’Annunzio. In particolare, un abile falsario potrebbe contrabbandarla come parte di una versione inedita di un brano di, per esempio, un bellissimo racconto dannunziano come La vergine Orsola.

E non dico questo per criticare la pagina in quanto datata – tutt’al contrario. (Credo sia chiaro da tempo che non sottoscrivo allo “sciocchezzaio” anti-dannunziano che ancora contamina buona parte della critica italiana, accademica e non.)

Elsa Morante In Her Apartment

Piccole “riscoperte” come questa sono un’ulteriore conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, che d’Annunzio – oltre che il poeta fondatore (insieme con F.T. Marinetti) della poesia italiana contemporanea, è anche il maggior romanziere del modernismo italiano post-simbolista. Il che significa: il maggior narratore al cardine fra l’Ottocento e il Novecento (sottolineando il Novecento) italiani. Non so se la Morante fosse un’ammiratrice di d’Annunzio, oppure subisse il clima ideologico antidannunziano dominante in quegli anni – clima che, come notato, esercita ancora il suo nefasto effetto.

Ma ciò non importa – come non importa il fatto che l’unico autore italiano presente nelle curiose “Assonanze” che la Morante elenca alla fine del romanzo, sia Umberto Saba; autore certo non dannunziano – e comunque scrittore di cui fatico a vedere tracce nello stile di Ara Coeli.

Del resto, sarebbe ingenuo pensare che, quando un autore o autrice elenca alcune “assonanze” (secondo l’ingegnoso termine della Morante) con il proprio romanzo, egli/ella intenda rivelare autori che le causino una “ansietà di influenza” (secondo la sempre valida formula di Harold Bloom).

L'Isola di Arturo - Elsa Morante - Premio Strega + Bellonci

Infatti nelle “Assonanze” compaiono autori che hanno un rapporto per lo meno obliquo con quello che la Morante ha effettivamente scritto – autori come lo storico Hugh Thomas e la mistica filosofa Simone Weil. Un’eccezione a questa obliquità è il riferimento a Sigmund Freud, perché lo sfondo freudiano è chiaramente presente nel romanzo. D’altra parte, mancano nella lista autori che in effetti influenzano stilisticamente il romanzo – come per esempio il citato d’Annunzio; e Marcel Proust; e anche (su scala minore) Alberto Moravia. (La traccia stilistica di quest’ultimo appare a tratti, nei passi di esposizione lucida e pacatamente raziocinante; se poi uno avesse voglia di sviluppare uno studio di micro-stilistica, potrebbe per esempio notare che la Morante a volte usa ancora il pronome essainvece di lei, come faceva talvolta Moravia – o forse il rapporto è l’inverso…) Insomma, Ara Coeli è un romanzo sghembo e a volte un po’ opaco, eppure – oso dire – geniale. È uno dei grandi risultati della narrativa tardo-novecentesca, all’altezza dell’Isola di Arturo, anche se non proprio al livello del fondamentale Menzogna e sortilegio.

Del resto, la inarrivabilità di Menzogna e sortilegio ha a che fare anche con la sua costante ossessività – quella “monotonia” che può essere (e lì in effetti è) un tratto di grande arte narrativa. Ara Coeli ha il pregio e insieme il limite (rispetto a Menzogna e sortilegio) di essere più vario nelle sue intonazioni.

 

Procida, Island in Italy

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UNA COLLANA TEATRALE, OGGI

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UNA COLLANA TEATRALE, OGGI

Riporto qui il breve testo programmatico della collana di teatro intitolata Persona, che ho fondato con il prezioso appoggio di Mauro Ferrari, cui sono molto grato: 

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Luigi Pirandello, autore di Maschere nude

“Il termine persona, nella tradizione neolatina, combina in modo inevitabilmente paradossale l’idea di una copertura con l’idea opposta di un nucleo autentico e profondo. (Il titolo più emblematico del modernismo teatrale italiano, quello della raccolta pirandelliana Maschere nude, è in un certo senso una generosa utopia: nessuna maschera finirà mai con l’essere “scoperta”.) Perché una collana di teatro presso un editore la cui vocazione fondamentale è la poesia? Non per delimitare un non meglio precisato “teatro di poesia”; bensì perché il teatro – tutto il teatro, dalle forme più metrico-letterarie a quelle più colloquiali – è, intrinsecamente, poesia.

“La collana dedica la propria attenzione soprattutto al teatro italiano contemporaneo, ma si apre anche alle riproposte di classici e, in una prospettiva internazionale, a testi tradotti. Persona accoglie anche saggi di critica teatrale, e opere che realizzino con impegno forme di ibridismo sperimentale, come per esempio: teatralizzazioni di film, romanzi, saggi e simili. Infine, i volumi della collana potranno contenere – oltre alle eventuali prefazioni e postfazioni – altri elementi integrativi del testo teatrale, come: interviste, fotografie, estratti da fonti e da materiali di lavoro, ecc.”

Qualche parola, adesso, di commento e aggiunta alla dichiarazione programmatica. Parlare di: “Una collana teatrale, oggi” non è la stessa cosa che discutere su: “Dove va il teatro?”. Io non so dove vada il teatro, né dove vada la poesia, né dove vada la narrativa, ecc. Tutte queste attività vanno dove gli capita e dove gli pare, secondo l’antico e sempre valido detto che lo spirito soffia dove vuole. Se mi soffermo dunque su questa collana, non è per una qualche forma di solipsismo. In quanto scrittore, posso testimoniare soltanto dell’esperienza che personalmente vivo e sviluppo; e in quanto organizzatore culturale (direttore di rivista, e di collane), testimonio di esperienze altrui che mi sembrino valide, e che siano interessantemente diverse dalle mie (dunque, nessun pericolo di solipsismo).

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Maschere, maschere

In verità, questi due movimenti dello spirito (adesione alla propria esperienza, testimonianza delle esperienze altrui) sono – o almeno, a parer mio, dovrebbero essere – sostanzialmente opposti; e il meglio che si possa auspicare è che si crei fra essi una dialettica. Non concepisco infatti questa collana come un prolungamento delle mie idee e predilezioni di scrittura, ma come (ripeto) un confronto con ciò che è altro da me. Per esempio, i due volumi finora accolti in essa sono ugualmente  ben riusciti ma radicalmente diversi: A me non sembra di dover morire e altri dialoghi teatrali di Alessandro Quattrone descrive interazioni così paradossalmente razionalistiche da sfociare nel surrealismo, mentre Dedo di Salvatore Ritrovato (quest’ultimo in corso di pubblicazione) rappresenta una scrittura di tipo lirico – così da fugare ogni idea che Persona come collana intenda rispecchiare una qualche singola corrente o tendenza. (Anche se sono ammiratore e studioso del Futurismo, ritengo che ogni retorica da manifesto, in senso neo-avanguardistico o non, abbia oggi un interesse essenzialmente storico.)

Ciò si connette anche all’idea (mi permetto di citare dal programma) che “il teatro – tutto il teatro, dalle forme più metrico-letterarie a quelle più colloquiali – è, intrinsecamente, poesia”.  È un tema, questo, che richiederebbe tutta una bibliografia, ma qui mi limito a quello che a me pare l’elemento essenziale: l’autentica parola teatrale è per sua natura poetica perché è una parola franta. I dialoghi teatrali (anche quelli cosiddetti realistici o naturalistici) non sono mai veramente realistici perché in essi le frasi sono sfrangiate, frammentate, sovrapposte, balzano dall’una all’altra idea e immagine; e questa è una caratteristica essenziale anche della dizione poetica. (Una riprova di ciò è che anche in quella tarda derivazione teatrale che è la sceneggiatura cinematografica, si ritrova – almeno, negli esempi migliori – questa caratteristica.)

Certo, Persona è pronta ad accogliere anche testi che siano scritti nella loro interezza in veri e propri versi; ma in essi ugualmente, ciò che conterà nella valutazione sarà quella torsione della parola che si è già indicata come caratteristica dell’intrinseca poeticità del teatro. E infine, si auspica che il linguaggio di tali proposte sia parte di un’architettura mentale propriamente teatrale, cosi che il lettore di questi volumi destinati alla lettura (in attesa di possibili messe in scena, o letture drammatiche, o mises en espace, e simili) possa osservare con gli occhi della mente (assistere a, non semplicemente leggere) una storia “recitata”. Scavalcando, fra l’altro, certe categorie puristiche in cui il linguaggio italiano del teatro sembra ancora irretito: come l’inutile e (l’abbiamo appena visto) fuorviante termine di “teatro di prosa”; o la tassonomia limitatrice di “dramma” versus “commedia” (laddove in inglese si usa il termine generale e non aprioristicamente impegnativo di play, e in francese si parla semplicemente di pièce, e così via).

Naturalmente, le questioni pertinenti a una collana come questa non sono soltanto formali; ma qui il discorso si farebbe vieppiù lungo, e mi limito ancora una volta a un’indicazione di fondo. Avevo detto sopra che non intendo profetizzare dove vada il teatro; semplicemente, oso sperare che esso non continui a marciare così regimentalmente e ortodossamente nella direzione che sembra oggi essere predominante, e non solo in Italia. In un articolo apparso l’anno scorso nel giornale Die Welt, l’atmosfera dominante nel teatro tedesco contemporaneo veniva sintetizzata con una frase ironica: “Persone benpensanti vanno a teatro per darsi delle pacche sulle spalle congratulandosi a vicenda per il loro essere benpensanti, con la collaborazione di messe in scena ben pensanti”. E si concludeva (con una variazione sul famoso discorso di Amleto agli attori) che il teatro dovrebbe tornare al suo compito centrale, quello di “servire da specchio a (tutta) la società” (il corsivo è mio).

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L’ennui secolare della correttezza ideologico-politica

E invece? E invece il teatro, a New York come nelle città italiane e (pare) anche in quelle tedesche e altrove, sembra funzionare troppo spesso come il braccio secolare della correttezza ideologico-politica: termine (l’ho già scritto) quanto mai equivoco, perché è di solito enunziato con sorrisetti complici e indulgenti, laddove sotto questa formula si nascondono il conformismo repressivo e la censura preventiva. “Pensare, non è proibito” (Il n’est pas défendu de penser) esclama verso l’inizio dell’opera di Bizet la sua protagonista Carmen quando è tratta in arresto – e sembra un’ovvietà. Ma non lo è veramente, almeno se pensiamo alla creazione nei vari campi – non solo in quello artistico. Fermiamoci pure, comunque, al nostro caso dell’autore di teatro, o di cinema: se il drammaturgo/a intuisce che il progetto cui sta pensando ha possibilità minime di essere messo in scena o di esser prodotto, egli sarà tentato di non sviluppare la concezione che aveva cominciato, come suol dirsi, ad accarezzare nella mente; il che equivale a subire una proibizione o impedimento di pensare – nel senso proprio e forte di questo termine. La conseguenza di tutto ciò, dall’altra parte della barricata (ovvero, al di qua delle luci della ribalta), è la corruzione del gusto del pubblico – e non credo di esagerare usando questo termine. Valga un esempio.

Un anno fa all’incirca ho assistito a Bologna, in un teatro di buona tradizione (L’Arena del Sole) alla rappresentazione di uno dei drammi più famosi di uno dei fondatori del teatro moderno, il drammaturgo svedese August Strindberg. Si tratta de Il padre – un testo che (come quelli di Ibsen, e di pochi altri autori) merita benché moderno l’antica e austera denominazione di “tragedia”. Il caso voleva che avessi veduto alcuni anni prima la messinscena dello stesso dramma in un teatro sperimentale di Manhattan. E va detto a vantaggio di quel pubblico americano che esso era pienamente coinvolto nella forza di quelle azioni e parole (o parole-azioni), e che alla fine applaudì con convinzione.  A riprova del fatto che la vasta e varia offerta di teatro a New York serve ancora in una certa misura da anticorpo all’epidemia di conformismo di cui si diceva.

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Più fragili, invece, sono gli anticorpi nel pubblico teatrale italiano… In quel teatro bolognese, si sentiva la crescente perplessità del pubblico mentre si svolgeva l’azione-parola de Il padre in versione italiana. (In teatro, a differenza di ciò che accade nel cinema, si può dire che le sensazioni si tocchino con mano: ha luogo quello che si potrebbe definire un corpo a corpo soft per cui gli spettatori trovandosi come gruppo di fronte a corpi vivi in azione, si sentono in più stretto contatto fra di loro; le reazioni del pubblico tutt’intorno si sentono per così dire sulla pelle.) Perplessità, si diceva: perché a ogni battuta diveniva più chiaro che il protagonista maschile, benché duro e possessivo, non era moralmente superiore alla protagonista femminile – anzi. Insomma il pubblico bolognese – generalmente abbastanza ideologizzato – non riusciva a incasellare quel padre come il “cattivo” della situazione, adattandolo ai correnti schemi di “genere”.

Questa reazione sull’orlo dell’infantilismo (conseguenza di ciò che accade quando si pre-giudica ideologicamente) finì quella sera col rendere indigeribile – troppo “forte”, come si dice – un dramma del 1887! Così la maggior parte degli spettatori, imbronciati e incerti, non applaudì alla fine – e lo scarso riconoscimento deluse, comprensibilmente, l’ottimo attore che si era impegnato a fondo; il quale si rifiutò di comparire alla ribalta (avvenimento rarissimo nel protocollo del teatro – e rimpiango ancora di non avere inviato a quell’artista un messaggio di solidarietà). Mi sono soffermato su questo caso particolare perché esso è il simbolo preoccupante di tutta una situazione di ideologizzazione del teatro contemporaneo, all’insegna della ricerca di lezioni edificanti (a senso unico). Non presumo certo che la nostra piccola Personapossa da sola cambiare la situazione. Desidero semplicemente ribadire che questa collana “non vieta di pensare”; e vorrebbe arrecare il suo modesto contributo alla coltivazione nei nuovi autori (giovani e non) di quelle energie di libera espressione che, alla lunga, sono ciò che conta di più.

Paolo Valesio

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Persona, Collana di teatro diretta da Paolo Valesio

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CODEX ATLANTICUS XVI: Bologna, 12 marzo 2017

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Costantino di Renzo, «La stanza del vescovo», olio su tela

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Bologna, 12 marzo 2017

Cito una frase da un romanzo:

«Era una giovane donna prosperosa, bionda, pallida, con gli occhi grandi e innocenti, un po’ flaccida all’apparenza, ma ben piantata sopra a un torso a fuso dal quale prorompevano, sotto il velo di chiffonche la paludava, due seni da battaglia, a popone per colpa di un reggipetto mal sagomato, ma una volta liberi certamente a pera spadona, da tanto che s’impennavano quando alzava il busto per bere e per dar fiato ai polmoni»

(Piero Chiara, La stanza del vescovo, Milano, Mondadori, 1976, p. 19)

Non credo di esagerare affermando che questo paragrafo si presta bene a essere simbolo (e altri ve ne sono, ovviamente) di una svolta nella storia del romanzo italiano. Fino a una certa epoca (fino, diciamo, agli anni Ottanta), si potevano ancora scrivere romanzi artigianali – romanzi, vorrei dire, “scritti a mano” (e non mi riferisco a macchine da scrivere, computer o simili); nel senso, fra l’altro, di essere scritti con uno sguardo diretto sulla realtà. La voce che parla in questo romanzo è la voce di un uomo a cui piacciono le donne, e che le analizza senza eufemismi.

Questa voce (dopo Chiara, dopo Moravia – a parte la vena un po’ troppo esplicativa e didattica di quest’ultimo – e pochi altri) non è più possibile nella narrativa contemporanea italiana a causa della informale ma onnipresente censura ideologica. Il romanzo italiano oggi è troppo spesso una traduzione indiretta della narrativa americana media (cioè della sua astuta mediocritas); è fatto, per così dire, “a macchina”; e soprattutto, è frutto della suddetta censura informale ovvero censura interiore.

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