CODEX ATLANTICUS XVI
Bologna, 27 maggio 2017
Un altro passo di romanzo:
«S’era ingrassata, e nel suo corpo gracile di bambina cresceva un corpo diverso, più colmo e vistoso. I fianchi, in ispecie, le sporgevano con una sorta di ostentazione involontaria, e le accompagnavano il passo con un dondolìo di danza lenta, quale si vede in certe giovane africane. Il ventre, dopo l’ultima gravidanza, non aveva più ripreso la sua piattezza verginale, e le si rilassava in una turgidezza pigra, visibile sotto la gonna stretta. Anche le mammelle, sempre piuttosto piccole, ma fatte ora più molli, le pendevano libere. E queste sue forme, non contenute da fasce o busti, davano al suo giovane corpo un senso di abbandono o di languore. In lei si svolgeva una qualche azione subdola e cruda, a cui la sua materia si assuefaceva servilmente. Le sue guance, piene e rotonde per natura, sembravano cedere un poco al proprio peso, e si rivelavano, specie nel pallore, di una pasta piuttosto densa e granulosa, non così fresca e tenera come una volta. Il loro colore ne appariva più bruno, e abitualmente erano piuttosto pallide; ma qualche volta fiorivano di un rossore opaco, somigliante a una bruciatura»
Questo è uno dei tanti ritratti di Ara Coeli, la co-protagonista eponima del romanzo di Elsa Morante del 1982, vista attraverso lo sguardo del co-protagonista/narratore, suo figlio Manuel [cito secondo l’edizione Einaudi dell’82, poi più volte ristampata, nella collana ET Scrittori, alla pagina 233.]
Si potrebbe, a proposito di sguardo diretto sulla realtà, confrontare questa descrizione di figura femminile con quella citata sopra da un romanzo di Piero Chiara; uscito proprio nell’anno in cui pare che la Morante cominciasse a lavorare a quello che sarebbe poi rimasto il suo ultimo romanzo, cioè appunto Ara Coeli.
Ma non è il caso di svolgere una comparazione “accademica” – che, come spesso accade con simili comparazioni, sarebbe essenzialmente priva di senso – fra Chiara e la Morante. È inutile, per esempio, discettare su narratori “minori” (come Chiara) e “maggiori” (come la Morante): sono distinzioni che riescono a essere al tempo stesso ovvie e false, dunque irritanti; sono, insomma, scolastiche.
Quello che qui vorrei osservare è un fenomeno diverso: perfino un critico universitario potrebbe esser tratto in inganno dalla lettura di una pagina come quella citata dalla Morante, e attribuirla a Gabriele d’Annunzio. In particolare, un abile falsario potrebbe contrabbandarla come parte di una versione inedita di un brano di, per esempio, un bellissimo racconto dannunziano come La vergine Orsola.
E non dico questo per criticare la pagina in quanto datata – tutt’al contrario. (Credo sia chiaro da tempo che non sottoscrivo allo “sciocchezzaio” anti-dannunziano che ancora contamina buona parte della critica italiana, accademica e non.)
Piccole “riscoperte” come questa sono un’ulteriore conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, che d’Annunzio – oltre che il poeta fondatore (insieme con F.T. Marinetti) della poesia italiana contemporanea, è anche il maggior romanziere del modernismo italiano post-simbolista. Il che significa: il maggior narratore al cardine fra l’Ottocento e il Novecento (sottolineando il Novecento) italiani. Non so se la Morante fosse un’ammiratrice di d’Annunzio, oppure subisse il clima ideologico antidannunziano dominante in quegli anni – clima che, come notato, esercita ancora il suo nefasto effetto.
Ma ciò non importa – come non importa il fatto che l’unico autore italiano presente nelle curiose “Assonanze” che la Morante elenca alla fine del romanzo, sia Umberto Saba; autore certo non dannunziano – e comunque scrittore di cui fatico a vedere tracce nello stile di Ara Coeli.
Del resto, sarebbe ingenuo pensare che, quando un autore o autrice elenca alcune “assonanze” (secondo l’ingegnoso termine della Morante) con il proprio romanzo, egli/ella intenda rivelare autori che le causino una “ansietà di influenza” (secondo la sempre valida formula di Harold Bloom).
Infatti nelle “Assonanze” compaiono autori che hanno un rapporto per lo meno obliquo con quello che la Morante ha effettivamente scritto – autori come lo storico Hugh Thomas e la mistica filosofa Simone Weil. Un’eccezione a questa obliquità è il riferimento a Sigmund Freud, perché lo sfondo freudiano è chiaramente presente nel romanzo. D’altra parte, mancano nella lista autori che in effetti influenzano stilisticamente il romanzo – come per esempio il citato d’Annunzio; e Marcel Proust; e anche (su scala minore) Alberto Moravia. (La traccia stilistica di quest’ultimo appare a tratti, nei passi di esposizione lucida e pacatamente raziocinante; se poi uno avesse voglia di sviluppare uno studio di micro-stilistica, potrebbe per esempio notare che la Morante a volte usa ancora il pronome essainvece di lei, come faceva talvolta Moravia – o forse il rapporto è l’inverso…) Insomma, Ara Coeli è un romanzo sghembo e a volte un po’ opaco, eppure – oso dire – geniale. È uno dei grandi risultati della narrativa tardo-novecentesca, all’altezza dell’Isola di Arturo, anche se non proprio al livello del fondamentale Menzogna e sortilegio.
Del resto, la inarrivabilità di Menzogna e sortilegio ha a che fare anche con la sua costante ossessività – quella “monotonia” che può essere (e lì in effetti è) un tratto di grande arte narrativa. Ara Coeli ha il pregio e insieme il limite (rispetto a Menzogna e sortilegio) di essere più vario nelle sue intonazioni.