Archivi del mese: Maggio 2017

DIARIO DI NEW YORK: IL DENARO DIETRO LA BELLEZZA

 
Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il  13 maggio 2017 col titolo “lo scandalo di New York? I soldi producono (anche ) il bello”
 

DIARIO DI NEW YORK:
IL DENARO DIETRO LA BELLEZZA

 

il quarto stato di giuseppe pollizza da volpedo 1901

Il quarto stato di Giuseppe Pollizza da Volpedo (1901)

New York – Esiste, presso un’università dell’Italia meridionale, un Movimento per la giustizia il quale emana periodicamente vigorosi manifesti inviati fra altri alle massime autorità dello stato; e uno dei più recenti sviluppava la tesi secondo cui occorre criminalizzare il capitalismo. Tesi che ha il vantaggio di tutte le formulazioni nette; cioè invita per contrasto dialettico a riflettere su un’idea alternativa: quella dell’enorme forza creatrice del capitalismo. Per esempio: a chi lasci la briglia sciolta ai propri pensieri passeggiando per New York (senza per questo ambire al titolo di filosofo peripatetico), può accadere di soffermarsi sul flusso continuo di bellezza generato, anche in mezzo a tante storture e ingiustizie, dal capitalismo; o almeno da un capitalismo dinamico come quello statunitense.

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Città ribelli e capitalismo

Ed è importante la combinazione che si è venuta formando in questo senso fra le energie italiane e quelle americane. Un esempio recente è la donazione che un importante collezionista e bibliofilo newyorchese ha fatto alla biblioteca della Columbia University – alla quale ha regalato tutta la sua raccolta (più di 400 volumi) dei libri editi dalla casa fondata dal famoso tipografo Alberto Tallone negli anni Trenta: un artista (la cui tradizione è brillantemente continuata dagli eredi) che stampava con caratteri a mano da lui confezionati nella tradizione di Manuzio e di Bodoni, usando inchiostri speciali e carta pregiata, libri a edizione limitata (circa 300 copie per ciascuno), con un catalogo che spazia dai classici letterari e filosofici italiani e stranieri fino alla poesia contemporanea. La cerimonia di donazione, avvenuta nell’elegante biblioteca dell’Italian Academy di Columbia, è stata un simbolo concreto della sinergia fra la straordinaria tradizione italiana di artigianato artistico, il mecenatismo newyorchese e i centri locali di eccellenza nella ricerca. E un altro esempio è il Center for Italian Modern Art (CIMA), fondato nel 2013 in un loft di Soho dalla figlia del grande collezionista d’arte Gianni Mattioli – centro che presenta mostre monografiche e incontri di ricerca, e offre borse di studio a giovani ricercatori.

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Il benefico sventramento di Manhattanville, a West Harlem

A proposito di Columbia e capitalismo dinamico: è cominciato, alla grande, il benefico sventramento di Manhattanville, a West Harlem. Un’area abbastanza povera, in quelli che fino a ieri erano i confini periferici di Columbia, grosso modo fra la 125esima e la 135esima strada – una di quelle che si chiamano eufemisticamente zone di marginalità industriale, ora “riconquistata” imperialmente dall’università. La quale inaugura questo grande ampliamento del suo campus con due edifici progettati da Renzo Piano: un centro per le neuroscienze e una scuola d’arte con annessa galleria (brillante matrimonio simbolico fra scienza e umanesimo). Tutto è stato organizzato, sembra, con grande sistematicità, attenzione alle diverse esigenze locali, calcolo dei risarcimenti eccetera (così che le iniziali proteste si sono placate): e adesso questa parte di Harlem mostra il volto della bellezza. Anche se ad alcuni abitanti del quartiere è rimasta una certa nostalgia per il panorama urbano – fra cui uno dei pochi tratti di metropolitana all’aperto, la “elevated” – che si poteva vedere a spicchi dalle finestre e finestrelle di una parte degli edifici circostanti. Un panorama che aveva una sua peculiare bellezza ferrigna (anche l’apparente squallore può essere bello), e che adesso è bloccato da quei grandi dadi che sono i nuovi edifici.

Meno benefico, forse, lo sventramento progettato dalla rivale di Columbia, New York University (che nonostante il nome è, come Columbia, una grossa e ricca università privata), perché il suo allargamento verrebbe a sfigurare alcune delle strade e stradine di Greenwich Village a cui è ancora legata la storia della cultura newyorchese; a riprova, e sembra di dire un’ovvietà, che lo sviluppo capitalistico può produrre bruttezza oltre che bellezza. Ma quello che non è ovvio è che quando il capitalismo non accetta la drammatica indissolubilità del rischio-bellezza e del rischio-bruttezza si condanna, come accade spesso in Italia, a una stagnazione che può risultare , né in autentica bellezza né in coraggiosa bruttezza, ma solamente in piattezza.

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Il Museo Whitney all’estremità sud della famosa “High Line”

Il rischio creativo del conflitto bellezza/bruttezza risulta particolarmente evidente (è il caso di dire: salta agli occhi) nelle mostre più militanti dedicate alle arti visive, come la Biennale del Museo Whitney, inaugurata due mesi fa nella sede nuova del museo, all’estremità sud della famosa passeggiata urbana detta “High Line” (La sede, com’è noto, è opera ancora una volta di Renzo Piano; ed è più bella quando è percepita dall’interno verso l’esterno – lungo le terrazze aperte al panorama di luce e tetti e acque – piuttosto che viceversa).

A dire il vero, la mostra di questo biennio risulta essere una documentazione vasta e interessante, ma non particolarmente eccitante. Un noto critico (Peter Schjeldahl) ha voluto domandarsi che cosa significhi oggi, questa Biennale presentata all’indomani di quelle elezioni presidenziali che continuano a innervosire tanti americani; e ha parlato di una mostra di transizione, che lascia aperto l’interrogativo su che cosa sarà la prossima Biennale, in piena epoca Trump. Ma questo tipo di determinismo, con tutto rispetto, sembra un po’ forzato. I pittori continueranno a svolgere i loro difficili giochi di equilibrio tra varie possibilità stilistiche non particolarmente chiare e non particolarmente nuove; e continueranno a destreggiarsi fra le esigenze del loro talento (o almeno, del talento di molti di loro) e le richieste delle grandi gallerie e dei ricchi acquirenti. E’ la normale amministrazione dell’eccezione: insomma, è il capitalismo.

– Paolo Valesio

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CODEX ATLANTICUS XV


Questa quindicesima puntata del “romanzo-diario in pubblico” Codex Atlanticus è apparsa nel numero 27 di “Anfione e Zeto. Rivista di architettura e arti” (2017) dedicata al tema “Contaminazioni”, pp. 277-281.

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Quanti aforismi…

CODEX ATLANTICUS XV

L’annata degli aforismi

In Italia si scrivono tanti, tantissimi aforismi – dunque, fino a tempi recenti, avevo resistito alla tentazione. Ma gli aforismi sono irresistibili – e a un certo punto, questa mia renitenza mi è parsa una forma di snobismo; dunque arreco il mio modesto contributo. Tutti i brevi testi che seguono si possono infatti, in diversi sensi e modi, definire aforismi; e in qualche caso, aforismi narrativi (come quando testi aforistici di altri scrittori sono seguiti da un mio aforistico commento.)

 

New York, 25 gennaio 2016
(Giorno della Conversione di San Paolo)

Oggi mi è venuto in mente l’unico verso che ricordavo dalla famosa raccolta di poesie di Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology (1914-1915) che un po’ tutti noi da giovani avevamo sopravvalutato, ma che ha avuto un’importanza storica nella formazione del gusto poetico novecentesco in Italia. Il verso è: “It takes life to love life”. Sono andato a verificarlo – è il verso finale della poesia intitolata a Lucinda Matlock, di cui traduco qui di seguito la conclusione:

Ma che state a parlare di dolore e stanchezza,
di ira, di scontentezza e di speranze avvizzite?
O figli e figlie degenerati,
la vita per voi è troppo forte –
ci vuole vita per amare la vita.

Sento ancora una volta quanto sia utile collocare i versi nel loro contesto (o almeno, nel loro contesto immediato). Quel verso finale, io lo ricordavo come profondo; ma adesso scopro che questi versi non mi piacciono, e appartengono alla parte più debole e caduca della poesia di E. L. Masters: sono aggressivi (“O figli e figlie degenerati”) e declamatorii.

Ma a volte è anche opportuno compiere il gesto inverso, cioè estrapolare un verso dal suo contesto immediato, soprattutto quando esso si staglia nettamente sullo sfondo di un contesto più prevedibile – e così risalta per una sua forza gnomica e aforistica.

Ricordo ancora l’impressione – proprio nel senso di: imprimersi nella mente – che questo “ci vuole vita per amare la vita” – causò in me (quasi un mezzo secolo fa …). Era una sensazione di disagio, quasi di paura; perché temevo di non avere in me abbastanza vita, o vitalità. E fu uno degli elementi che segnarono l’inizio di un certo scrutinio interno, che mi ha seguito per tutta l’esistenza.

Quello che mi ha urtato oggi, quando ho riletto Lucinda Matlock, è il senso di sicurezza un po’ compiaciuta (self-righteousness, dice l’inglese): il disprezzo di esperienze fondamentali e fondanti come “ira, scontentezza e speranze avvizzite”. Insomma, questa poesia distingue troppo drasticamente i “vitali” dai “non-vitali”. A me invece era sempre sembrato – e sembra ancora – che la verità annidata (in un certo senso, suo malgrado) nel verso “ci vuole vita per amare la vita”, sia che l’esperienza di amare la vita è sempre possibile, e non se ne possono fissare inizi e confini troppo netti.

In generale, quando si sviluppa un’esperienza particolarmente importante accade spesso che tale esperienza sia, per così dire, “preceduta” da quella stessa esperienza che è in questione. Cioè: di certe esperienze non si dà una vera e propria origine; nel senso che la loro fonte è profondamente interiore e intima, non riducibile a segmentazioni temporali nè a decisioni intellettualistiche e programmatiche.

É una questione strettamente analoga a quella della libertà d’espressione, e della libertà in generale, che discutevo pochi giorni fa con un collega giornalista, sulla scia del massacro a Charlie Hebdo (per cui vedi la puntata XIV di questo Codex Atlanticus). Per essere liberi, bisogna prima di tutto sentirsi liberi: e non tanto liberi di scegliere, quanto liberi e basta – liberi prima ancora di ogni pensiero di scelta. Ovvero: per essere liberi occorre accettare il mistero della propria libertà – la quale è misteriosa, fra l’altro, perché può inizialmente apparire come un’esperienza o complesso di esperienze che in apparenza hanno ben poco a che fare con quella che noi di solito chiamiamo “libertà”.

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Monica Silva, “Lucinda Matlock” dalla serie “Life Above All”

 

New York, 29 gennaio 2016

Il matrimonio cosiddetto “tradizionale” è un’unione “incivile” – attributo che qui non è usato in senso negativo. Il matrimonio è “incivile” in quanto è pasticciato, turbolento, imprevedibile (messy, direbbe l’inglese), fatto di alti e bassi, ed entra sempre in una relazione molto aggrovigliata con la realtà circostante. Il matrimonio dunque riflette quello che Manzoni, con una delle espressioni più efficaci nella storia della letteratura italiana, descrive come “quel gran guazzabuglio del cuore umano”.

Il matrimonio insomma è “incivile” perché è come la vita. Le unioni “civili”, per contro, rischiano (non dico che ciò effettivamente accada) di essere percepite come un po’ asettiche, “politicamente corrette”, ammantate da un certo compiaciuto senso di superiorità; in breve, con una certa puzzetta sotto il naso. E così queste unioni rischiano (ripeto: rischiano soltanto) di assomigliare più all’ideologia che alla vita.

Il matrimonio in quanto unione “incivile” è analogo alla poesia che – nella sua relazione profonda con la vita – è sempre in qualche misura (come ho già scritto altrove in questo Codex Atlanticus) un discorso “incivile”; in opposizione alla poesia cosiddetta “civile”, la quale ha più a che fare con l’ideologia che con la poesia.

Bologna, 27 febbraio 2016

Letteratura e morale. Il male immaginario è romantico, vario; il male reale invece è cupo, monotono, desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale al contrario è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante. Dunque la ‘letteratura d’immaginazione’ è o noiosa o immorale (o una mescolanza delle due cose). La letteratura sfugge a questa alternativa solo passando in qualche modo, a forza d’arte, dal lato della realtà – e questo, soltanto il genio può realizzarlo”

            (S. Weil, La pesanteur et la grâce [1947], Paris, Plon, 1988, p. 131; la traduzione qui è mia, ma è utile per tutto questo libro consultare la sua traduzione italiana: S. Weil, L’ombra e la grazia, a cura di G. Hourdin, F. Fortini, trad. di F. Fortini, Bompiani, Milano 2000/2014; dove la sola cosa che lascia insoddisfatti è il modo in cui è reso il titolo).

Come spesso accade a Simone Weil (e a tutti i veri pensatori), questo pensiero, nonostante il tono deciso e tagliente, è piuttosto intricato – e la riprova è che l’applicazione alla letteratura che la Weil fa, sfiora l’assurdo. Ma, lasciando da parte la letteratura, quello che vorrei dire è che, a mio modesto avviso, essere buoni è spesso una faccenda ripetitiva, abbastanza melensa e noiosa – insomma, qualcosa che spesso fa venire (come suol dirsi) il latte alle ginocchia.

D’altra parte, se non fosse così – se esser buoni riuscisse naturale come sorridere all’apparire del sole dopo la pioggia, o ravvivare lo sguardo al passaggio di una bella creatura – non ci sarebbe particolare merito, nell’esserlo. Buoni non si è, ma si diventa. E anche quando lo si è diventati si può sempre cessare di esserlo, per brevi o lunghi (lunghissimi) periodi; insomma è una fatica continua – e almeno non ci si annoia.

Bologna, 28 febbraio 2016 

Prima o poi l’amore erotico, passionale, mondano ci brucia le ali, o almeno ce le strina. E allora si aprono le due solite, ma continuamente riscoperte, vie: o si diventa cinici, o si comincia veramente a sentire l’amore come esperienza divina – esperienza del divino.

Bologna, 8 marzo 2016

Uno dice: “Non credo al determinismo”; e l’altro ribatte: “Io invece ci credo”. Segue discussione, che può prolungarsi all’infinito. Ma arriva quasi sempre un momento in cui il determinismo ti appoggia la mano sulla faccia e ti spinge contro il muro, per risvegliarti alla realtà.

Exemplum in corpore vili: ho finalmente capito che la maggior parte dei miei ansiosi zig-zag, nel corso della vita, si spiegano col fatto che mi sento basso. E mi sento così perché effettivamente sono di bassa statura.

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“Non ci resta che scoppiare a ridere”

Bologna, 2 aprile 2016

Da giovani si è molto sensibili alle diversità dei luoghi; poi con il passare degli anni ci si rende conto che tutti i luoghi, in ogni dove, fondamentalmente si assomigliano. Ci si rende conto, cioè, che tutte le località provvedono essenzialmente lo stesso tipo di sfondo.

Quelli che invece sono diversi – infinitamente diversi, e non stancano mai, e mantengono la loro misteriosità in ogni epoca della vita – sono gli esseri umani.

Bologna, 2 aprile 2016 (più tardi)

Coloro (e non sono poi molti) che vivono scavati da un’ambizione – non importa quanto la loro ambizione venga poi realizzata – sono in contatto con il lato oscuro della vita. Gli ambiziosi sono complici dell’oscuro: non del peccaminoso, necessariamente; non (necessariamente) del sordido; ma dell’oscuro, sì.

In ogni ambizione (anche in quelle rivolte verso “i più alti valori”) c’è del torbido. Il demone dell’ambizione è molto scuro; e l’ambizioso è complice, non solo del proprio demone, ma di tutti coloro che lui/lei coinvolge nel suo impeto.

Bologna, 4 aprile 2016 

Scrive da qualche parte Cartesio che il senso comune è la facoltà meglio suddivisa al mondo. L’osservazione, chiaramente, è ironica. Ma io dico (seriamente) che l’autocritica è una delle capacità più rare fra gli uomini.

Per esempio: tutti noi (o quasi) siamo istintivamente abili nel distinguere fra atteggiamenti gentili, premurosi ecc. che sono autentici, e altri invece che sono fasulli. Ma poi, nel nostro comportamento verso gli altri, pensiamo di farla franca quando adottiamo forme fasulle (fake, per dirla all’inglese) di premura, gentilezza ecc.

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Piazza del Popolo

Roma, 13 aprile 2016

“La beatitudine perfetta che si prova dopo una perfetta voluttà non rimedia, non assolve, non dà ragione di niente: complica, invece, e allontana all’infinito qualunque possibile spiegazione.

“Se la voluttà suprema dell’amore, come dice Baudelaire, sta nella certezza, nella sicurezza di fare il male, perché mai, dopo, quando non si prova più questa voluttà, la coscienza si rovescia? Perché si ha, per qualche tempo, la sicurezza opposta, la certezza di aver fatto il bene?”

Soldati, Lo smeraldo, Edizione Euroclub, Bergamo 1980 [1974], p.331; cito da un’edizione non recentissima e non “scientifica” per un moto di simpatia: ho trovato questa copia de Lo smeraldo, romanzo zoppicante ma intelligente che non conoscevo, in un piccolo albergo pittoresco dalle parti di Piazza del Popolo, e l’ho divorato durante la notte scorsa.

Sincronicità: leggendo questo passo mi sono ricordato di quando lessi per la prima volta, molti anni or sono, quel pensiero di Baudelaire (nei suoi Journaux intimes), che comincia appunto con la frase: “La volupté unique et suprême de l’amour gît dans la certitude de faire le mal” (il corsivo era nell’edizione in cui lo lessi). Scelsi, allora, questa frase come epigrafe a un mio racconto lungo, S’incontrano gli amanti, poi pubblicato in una raccolta di tre racconti miei col titolo eponimo (Roma, Empiria, 1993). Quella frase sulla voluttà era immediatamente seguita, nel testo di Baudelaire, da un’altra frase dal sapore quasi biblico (che lasciai fuori dalla mia epigrafe) : “Et l’homme et la femme savent de naissance que dans le mal se trouve toute volupté” (La voluttà unica e suprema dell’amore consiste nella certezza di fare il male. E sia l’uomo che la donna sanno fin dalla nascita che ogni voluttà si trova nel male); e a proposito: colpisce, in un romanzo degli anni Settanta, un’espressione così ottocentesca come “voluttà” – omaggio di Soldati alla prosa di Baudelaire, per non parlare di quella di d’Annunzio. Tutto ciò comunque richiama in certo modo il pensiero della Weil commentato nel lemma del 27 febbraio.

Il tono del citato passo di Soldati è aforistico; e una discreta presenza di aforismi è cruciale, in un buon romanzo. A me viene da pensare che ogni aforisma proceda soprattutto sulla base dell’estrapolazione iperbolica. Cioè: l’aforisma ha l’apparenza di un’affermazione generale e disinteressata sulla realtà effettiva delle cose – mentre in realtà si tratta di una reazione soggettiva.

Per esempio, a chi appartiene “La beatitudine perfetta che si prova dopo una perfetta voluttà ecc.”? Non al personaggio autobiografico creato da Baudelaire, bensì al personaggio di finzione (il narratore, a base più o meno biografica) creato da Soldati per il suo romanzo. Ma a quante altre persone o personaggi nel mondo si può effettivamente estendere, questa “beatitudine”?

Certo non a coloro che, dopo la “voluttà” provano alcuni momenti di rilassamento puramente fisico, seguiti poi quasi subito da una lieve inquietudine, da un desiderio di occuparsi d’altro – come per riscattare qualcosa di simile a uno spreco d’anima. O a quegli altri per cui il momento di “beatitudine perfetta” è quello immediatamente precedente l’orgasmo – “beatitudine” accompagnata dal desiderio avaro che il momento si prolunghi il più possibile, magari per sempre. Come se, invece di sperimentare la classica petite mort, costoro provassero una sorta di petite immortalité; e forse in questa ansia di far tesoro dell’istante si annida in essi l’insoddisfazione per l’esperienza puramente carnale, unita al desiderio dell’eros superiore, quello veramente diretto all’immortalità (vedi il lemma del 28 febbraio). E, chiaramente, questi sono soltanto pochi casi in una vasta fenomenologia.

Siamo sempre alla mossa dell’estrapolazione iperbolica. Se uno chiede: “perché mai, dopo, quando non si prova più questa voluttà, la coscienza si rovescia?”, questa domanda presuppone che l’esperienza che si sta descrivendo sia universale, e che l’unico problema sia quello del suo perché. Invece, come si è visto, non è affatto detto che l’esperienza descritta sia universale. Ma questa non è una critica, come se si volesse sottolineare una fondamentale fallacia dell’aforisma. Piuttosto, è la descrizione del suo efficace meccanismo di empatizzazione, che vuol far condividere vivacemente una data esperienza anche a costo di una forzatura – forzatura che d’altra parte ha una sua validità cognitiva e morale.

Bologna, 7 maggio 2016

“Make time” per fare una data cosa, dice l’inglese; che in questo caso è più materialmente concreto dell’italiano: “trovare il tempo” di fare qualcosa. E mi sovviene l’espressione “fare anima” usata da James Hillman (vedi Il mito dell’analisi [1971], trad. di A. Giuliani, Adelphi, Milano 2012).

Ma allora mi viene da pensare: quando dico per esempio, “Scusami, ma adesso non ho tempo”, confermo per ciò stesso che in generale io, il tempo ce l’ho – che lo posseggo; o almeno ne possiedo un frammento, una persuasiva parvenza.

Ma non posso dire (io almeno non riesco a dire – temo di dire): “Scusami, in questo momento non ho anima”. E allora, l’impossibilità di enunziare questa frase non potrebbe forse significare che non è affatto sicuro che uno, l’anima, ce l’abbia?

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Hora fugit

Bologna, 11 maggio 2016

C’è molto spesso una vena di perversità, nell’aforisma; e si potrebbe perfino dire che questa vena si ritrova nella maggior parte degli aforismi riusciti (che contrastano con l’ondata corrente degli aforismi perbenistici – quelli che giocano sul sicuro).

Ascolto in due occasioni distinte a poca distanza di tempo, una recitazione della stessa poesia di Giovanni Giudici, Una sera come tante, letta con totale approvazione da due stimolanti – e diversi – poeti di mia conoscenza.

Ora – a parte il fatto che la maggior parte delle poesie significative richiede a mio parere un’approvazione differenziata (ci sono sempre, in ogni poesia anche grande, dei più e dei meno, degli alti e dei bassi, delle “luci e ombre”, come si diceva una volta) – mi colpisce particolarmente il verso finale:

“C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà”.

Sul momento sento, come dire, un sobbalzo d’assentimento; e penso anche (si parva licet…) al penultimo paragrafo del mio primo romanzo pubblicato:

“Forse, rinnegato di una religione prima, di un’idea laica poi, creperò come un animale o peggio, defecando per la bocca”

(L’ospedale di Manhattan, Editori Riuniti, Roma 1978).

Dicendo “rinnegato” pensavo, in quegli anni Settanta, al rifiuto della fede cattolica (poi recuperata) e a quello del mitico Partito (mai recuperato) come a un doppio marchio oscuro, possibile presagio di una decadenza. Ma poi (e ben prima di leggere Una sera come tante) ero cambiato, e avevo adottato un atteggiamento più costruttivo.

Ascoltare stamattina per la seconda volta in poco tempo la lettura di quel verso di Giudici (che è chiaramente un aforisma) mi ha, di prima battuta, rafforzato in quello che ho appena chiamato atteggiamento costruttivo – che è poi un atteggiamento, come dire, di contrattacco: “Sono un rinnegato? E va bene, sono un rinnegato”; “Ho tradito? E va bene, ho tradito – e con ciò?”.

Ma poi, ripensando a quel verso aforistico, mi sono reso conto che in fondo sarebbe altrettanto plausibile dire il contrario: “C’è più onore in esser fedeli a metà che in tradire”.

Tutto ciò non vanifica il valore – né di questo aforisma, né della procedura aforistica in generale. La forza dell’aforisma, infatti, è proprio quella di intrattenere dentro di sé i contrari: il pensiero aforistico è un pensiero della coniunctio oppositorum (e vedi anche il lemma del 25 gennaio).

Bologna, 25 maggio 2016

Sono “morto” per molti anni a Bologna. Poi per molti anni ho intensamente vissuto tra Cambridge nel Massachusetts, New Haven nel Connecticut, e New York. Adesso che a Bologna sono ritornato, vedo le cose con più ottimismo, e penso che anche a Bologna si può vivere prima di morire.

Bologna, 29 maggio 2016

Difficile dire quale sia la prospettiva più paurosa: l’uscita del Regno Unito dall’ Unione Europea e le vittorie in Europa dei partiti cosiddetti populisti – cioè il “salto nel buio” deplorato dall’opinione che si auto-definisce razionale; oppure la sconfitta di questi movimenti, e la continuazione dell’orrorino mediocrino.

Bologna, 29 maggio 2016 (più tardi)

Ognuno di noi deve muoversi con cautela, rispetto ai propri simili: basta poco perché la creatura umana divenga, temporaneamente ma perturbantemente, una belva. Allora: attenti a non svegliare le donne troppo presto al mattino; e attenti a mantenere gli uomini in un’atmosfera di indefinita paura di istanze superiori.

Bologna, 29 maggio 2016 (ancora più tardi)

La cosiddetta contro-cultura (counter-culture) è prima divenuta la cultura pop, e poi la cultura dominante. C’è solo una forma di cultura che sia rimasta autenticamente contro-cultura: quella cattolica.

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Contro-cultura negli anni

Bologna, 31 maggio 2016

A volte sembra proprio che le relazioni sociali (cosiddette esteriori) e gli spostamenti fisici, siano ancora più complicati dei pensieri e sentimenti interiori.

Bologna, 16 giugno 2016

Quando ti sei veramente convinto che tu e tutto quello che fai (“creativo” o no) non avete nessuna importanza – ecco allora che hai la possibilità di mettere insieme qualche cosa di accettabile.

Con una certa sincronicità mi è capitato, vari giorni dopo (era il 21 giugno 2016) aver scritto l’aforisma di cui sopra, di leggere il seguente frammento di Nietzsche citato da Bataille:

“Tutto il mio ardore laborioso e tutta la mia noncuranza, tutto il padroneggiamento di me stesso e tutta la mia inclinazione naturale, tutta la mia spavalderia e tutto il mio tremore, il mio sole e la mia folgore sprizzante da un cielo nero, tutta la mia anima e tutto il mio spirito, tutto il granito pesante e greve del mio “Io” – tutto questo ha il diritto di ripetere a se stesso senza posa: ‘Che importa che cosa io sia!’”

(G. Bataille, L’expérience intérieure [1943-1954], Gallimard, Paris 2015, p. 33).

A me sembra che (fatte salve le debite proporzioni) vi sia una certa rispondenza fra il mio piccolo aforisma e quel frammento nietzscheano. Ma appunto: mi sembra. Le analogie tra aforismi appaiono e scompaiono, gli echi e le rispondenze a volte risuonano e altre volte svaniscono.

Per esempio: ci può essere una rispondenza tra ‘il granito pesante e greve” dell’ Io di Nietzsche e la “pesantezza” (pesanteur) che appare nel titolo dell’opera di Simone Weil citata al lemma del 27 febbraio; ma d‘altra parte, la Weil pensatrice spirituale oppone a quella “pesantezza” la “grazia”, secondo una logica nettamente non-nietzscheana.

Insomma: gli aforismi, come ogni forma di pensiero che sia tanto intenso quanto irriverente, si impadroniscono del pensatore e lo sospingono dove essi vogliono.

   Paolo Valesio
  Bologna/New York

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Diario di New York: Il contrabbando benefico


Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “ilsussidiario.net” il  28 aprile 2017 col titolo “Uno scimmione peloso a Manhattan contro l’ipocrisia degli States”

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John Douglas Thompson interpreta “L’imperatore Jones”

Diario di New York: Il contrabbando benefico

Qual è l’area della società statunitense di oggi per cui si possa parlare di un sistema non troppo dissimile da un regime poliziesco? Non l’ambito politico, dove continua a funzionare il famoso equilibrio dei poteri (checks and balances), bensì l’ambiente culturale: i media, le università, lo spettacolo.

Limitandoci al mondo dello spettacolo, così pervasivamente influente (cinema, televisione, teatro, soprattutto quest’ultimo) – e definendo come regime con caratteristiche, se non poliziesche almeno repressive, un sistema culturale in cui esistano forti limiti alla libertà d’espressione – si può dire senza timore di esagerazione che nell’ambiente dello spettacolo ci si stia avvicinando sempre più a tale situazione. E’ tutto molto semplice, e brutale: se uno scrittore tenta di esprimere certi contenuti, non viene rappresentato. E perché il teatro risulta, in questo caso, la miglior cartina di tornasole? Perché il teatro, meno commercializzato del cinema e della televisione, dovrebbe essere l’area culturale più adatta a esprimere punti di vista minoritari, e mostrare visioni del mondo insolite e problematiche. Inoltre il teatro, con l’immediatezza della sua presenza fisica di corpi umani nella realtà del hic et nunc, conferisce una vivacità insostituibile, e allarmante per ogni conformismo alle parole e al pensiero che esse incarnano. (Il teatro mostra al proprio tempo “la sua stessa forma e pressione” – his form and pressure – come Shakespeare fa dire, stupendamente, ad Amleto.)

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Eugene O’Neill

Ma oggi negli Stati Uniti (e in Italia) il teatro è soprattutto divenuto il braccio temporale del conformismo oppressivo, in forza del quale il femminismo si è esasperato in misandria; la virilità è stata degradata a machismo; i pelle-bianca sono divenuti vagamente imbarazzanti; le diverse prospettive sulla società si sono ridotte a un pensiero unico; qualunque forma, non si dice di dottrina ma di sensibilità e di tradizione cristiane, è ammessa solo come oggetto di ridicolo; e così via asfaltando.

Ma l’arte e gli artisti sono resilienti. Qual è allora uno dei modi più efficaci in cui l’arte si difende dall’oppressione conformistica esercitata da quella ideologia tendenzialmente totalitaria la quale stabilisce imperiosamente ciò che è “corretto” e ciò che non lo è? Il modo è quello di “contrabbandare” (uso il termine in un senso positivo, anzi benefico) certe idee riprendendo drammi del passato in cui non esisteva ancora la tirannia del conformismo.

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L’imperatore Jones comanda

Fra le riprese teatrali di quest’anno, due sono state veri e propri eventi – due brevi e intensissimi drammi proto-novecenteschi (in sostanza, atti unici) che hanno avuto un effetto esplosivo: “L’imperatore Jones” (The Emperor Jones) del 1920, di Eugene O’Neill; e “Lo scimmione peloso” (The Hairy Ape) del 1922, dello stesso O’Neill. Per capire la forza, ancora esplosiva, di queste pièces (ciascuna delle quali ha protagonizzato un’intera serata, in due teatri e con due regie molto diverse) basta un riassunto di poche righe. Rufus Jones – il protagonista del primo dramma – è un afro-americano ricercato per omicidio negli Stati Uniti il quale si è imposto come monarca assoluto (“imperatore”) a un piccolo paese africano. A un certo punto gli abitanti si rendono conto che costui è solo un truffatore, e il dramma si conclude in tragedia: Rufus, braccato dai suoi stessi sudditi, al termine di una lunga fuga allucinante attraverso la foresta viene da essi ucciso. Per capire il “contrabbando” di cui si parlava, bisogna pensare alla impossibilità di rappresentare, sui palcoscenici americani degli ultimi decenni, un personaggio di colore raffigurato (anche con tutta l’empatia che mostra O’Neill, vero grande drammaturgo) come un delinquente senza scrupoli.

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Gli scimmioni si salutano

Ancora più esplosivo è il caso dello “Scimmione peloso”: la storia di un fuochista (Yank), dotato di un’energia ottimistica e orgoglioso del suo lavoro, che, sul transatlantico in cui lavora, si trova improvvisamente faccia a faccia con una ricca e arrogante passeggera la quale lo apostrofa sprezzantemente come una “sporca bestia”. L’immagine di se stesso che Yank si era costruito come base della sua dignità, gli crolla improvvisamente addosso: sbarcato a Manhattan, lo stato mentale dell’uomo degenera, fino a un disperato dialogo surrealistico con un gorilla attraverso le sbarre di una gabbia allo zoo.

Perché, sera dopo sera, un pubblico vasto ed eterogeneo balza in piedi applaudendo nell’enorme spazio della “Armory” su Park Avenue di fronte a questo atto unico brillantemente dilatato nel tempo e nello spazio? Forse perché – come osserva il recensore teatrale di una rivista raffinata: “Da molto tempo non si vedeva, sui nostri palcoscenici, una raffigurazione del dolore maschile”. Affermazione esatta, ma al tempo stesso doppiamente ipocrita. Ipocrita prima di tutto perché non si tratta del dolore maschile in generale, ma del dolore di un uomo bianco, dopo che l’esperienza del dolore nel dramma contemporaneo sembrava essere rivolta esclusivamente a pelli di altri colori. (Pronunciare l’aggettivo “bianco” è oggi diventato un gesto altrettanto delicato di quello con cui una volta si usava l’aggettivo”nero”, e questo dà la misura del punto di frattura a cui la società americana è arrivata.) E inoltre ipocrita perché, se questa rappresentazione era diventata così rara, ciò si deve al regime descritto sopra, e vigorosamente appoggiato dai vigilantes culturali.

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Chi sfiderà i mentori censori?

Allora chi, fra i giovani e le giovani che studiano per diventare drammaturghi nelle prestigiose scuole di Yale, Columbia e luoghi simili, ritroverà il coraggio di quasi un secolo fa, alle origini del teatro americano contemporaneo, e sfiderà i mentori censori?

   – Paolo Valesio

 

 

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