Archivi del mese: Maggio 2014

Rursum corda I

(Accludo un’altra poesia da L’aureola del morso)

 

Oggi la voce dal soffitto ha detto:

‘Arrivato alla fine dell’amore

salti la soglia e arrivi all’oltre-fine’:

 

soltanto allora dunque — nella più completa esaustione — uno può cominciare a vedere un barlume nel groviglio e intrico dell’amore — ma (obietta) l’amore è vita e la vita semplicemente è — come dire che lui non ha ancora capito che non c’è niente da capire:

 

l’amore non consiste nell’ardore

ma sussiste in un tepido calore

 

che però a volte può divenire ustione ma restando pur sempre un po’ curvo e umile addirittura umìllimo mentre l’ardore ha sempre qualcosa di un po’ troppo rigoglioso e orgoglioso — un capaneo dal capo in su levato:

 

l’erotico amore costeggia

i sensi-menti della generazione corrotta

l’amore agapico rischia annegamento

nel Lago della Blandizie —

ma senza questi due o almeno uno

la razionale vita è sempre incerta

se si è già suicidata o ancora no.

 

 

 

Riverside Drive

Manhattan

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Distintivo

(Anticipo una poesia da una raccolta in corso, L’aureola del morso, dove esperimento una forma di poesia in cui i versi più o meno liberi si alternano a passi in “prosa” ovvero in prosapoesia)

Da L’aureola del morso

 

Una volta al supermercatino

c’era un alto e robusto al suo fianco

che sostava tranquillo scegliendo

tra l’insalata russa e il cole slaw

poi improvvisamente il cellulare —

e ha piantato

tutto è saltato fuori dal negozio

traendo uno stemmino dalla tasca

con la sinistra, e con la destra alzata

chiamava un tassì.

“Es un policía”

ha sussurrato la commessa

un poco spaventata un po’ attirata

dal distintivo svelato.

E perché gli è venuto questo in mente

adesso mentre a mesi di distanza

 

si avvicina al finestrone dell’ufficio guarda sul viale lì sotto e non vede nulla che c’entri niente con quel polismano in borghese che era corso fuori dalla bodega? È successo perché mentre attraversava la stanza si slacciava il secondo bottone della camicia — piccola autoindulgenza per l’umidità e calore — e la crocetta di legno francescano ha sbirciato fuori e lui per il percorso di un istante — aggiungendo autoindulgenza a autoindulgenza — ha pensato a quel suo crocefissino denudato del cristo come a un distintivo che lui potrebbe esibire per indicare

 

una qualche funzione o appartenenza:

ma, come nube piccola,

la fantasia è svanita in un istante

disfatta sotto il sole

denso-pesante come un muro

e testarudo come un mulo — il sole

che chiamano realtà.

 

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GLI ESAMI NON FINISCONO MAI

(Il piccolo saggio che segue è stato pubblicato in forma ridotta come articolo (col titolo redazionale “Quello strano ‘mix’ che rende unica l’università degli Usa”) sul quotidiano online “Ilsussidiario.net” del 7 maggio 2014)

Si continua e si continuerà a discutere (ed è bene che lo si faccia) su come organizzare nel modo migliore i test di accesso a certe facoltà universitarie italiane. In questo contesto, è inevitabile che prima o poi venga in mente di comparare la situazione italiana con quella delle università americane, le quali costituiscono ancora (fino a quando reggerà il primato americano) un invidiato modello internazionale. È un confronto cognitivamente utile, come tutti i confronti di questo tipo — a patto di non farsi troppe illusioni in proposito. È bene infatti ricordare un detto tipicamente americano: “Non si possono paragonare le arance con le mele”.

L’intensificarsi dei movimenti e dei rapporti fra l’America e l’Italia può dare l’impressione che tra i due paesi esista quella che certi filosofi e antropologi chiamano “una somiglianza di famiglia”. Ma tale somiglianza, in questo come in tanti altri aspetti della società (diciamo pure, nella maggior parte di essi), è in larga misura illusoria: illusione nutrita dall’imitazione consumistica, con connotazioni giovanilistiche, di frasi e atteggiamenti trasmessi da quei media intrinsecamente artificiali che sono i film, le canzonette e simili. La realtà invece è abbastanza diversa: più l’oceano per così dire si restringe, più chiare risultano le profonde differenze fra i modi di vivere i rapporti sociali, di coltivare il senso della vita e i suoi valori, nell’un paese e nell’altro. (E poi, forse questa storia delle somiglianze di famiglia è sempre stata un po’ troppo ottimistica: non è detto che all’interno di una famiglia le somiglianze prevalgano sulle differenze.)

Per esempio, l’accesso alle facoltà universitarie. Che è complicato, eccome, anche in USA: ma riflette la peculiare combinazione statunitense di istituzioni pubbliche e private, e l’onnipresenza di un capitalismo energico — talvolta selvaggio — con effetti in certi casi propulsivi e in altri repressivi. Noi diciamo: “scuola”, “università”, “stato” — e ci sembra d’intenderci; ma questi termini coprono (vien voglia di dire: mascherano) referenti profondamente diversi, al di qua e al di là dell’oceano. Per esempio, quando diciamo scuola in contesto americano, di quale tipo di scuola parliamo: le scuole pubbliche, con basse tasse d’iscrizione, o le scuole private (in prevalenza cattoliche) con rette ragionevoli, o le scuole preparatorie (le cosiddette “Prep Schools”) con rette altissime che sanciscono il loro prestigio?

E quando diciamo università, di che parliamo: le università appartenenti alla “Lega dell’Edera” (Ivy League) che sono tradizionalmente otto (in ordine alfabetico: Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth College, Harvard, Princeton, The University of Pennsylvania, Yale) e hanno uno statuto semi-mitico agli occhi dei primi e le prime della classe in ogni liceo americano; o di tutte le decine e decine di altre università generalmente ottime (basti pensare alle eccellenze californiane) ma meno circonfuse di quella certa aura che è di tanto aiuto a far carriera, nel paese che vive in buona parte di pubblicità? E quando diciamo “stato” — anzi no, il termine è ingannevole, in un paese non statalistico dove questa parola dev’essere declinata al plurale. (È facile dimenticare che in America gli Stati sono Uniti sì, ma rimangono Stati profondamente autonomi; dunque le “università statali” americane sarebbero in Italia università regionali — se le regioni italiane fossero veramente autonome.)

Come si può descrivere un progresso verso gli studi universitari americani che sia abbastanza tipico? Ho detto “studi universitari” perché quelle di cui si sta parlando qui sono le ammissioni al college: dove si svolgono quattro anni di studi generali, al termine dei quali (con laurea di baccalaureato) chi decide di proseguire negli studi affronta le selezioni per essere ammesso alla vera e propria università (studi di scienze umanistiche o esatte, verso il dottorato) o alle scuole professionali, come medicina o giurisprudenza. Ma fermiamoci al percorso dal liceo al college.

Nel corso degli studi liceali, lo studente che ambisce al college è incoraggiato a prendere un certo numero di corsi speciali (corsi “di onore”) più intensi degli altri; e questi corsi possono ulteriormente specificarsi in corsi di “collocazione avanzata” i quali, nei migliori casi e scuole, possono valere come equivalenti che fanno abbonare alcuni dei corsi del college . (La posizione guida è quella delle già menzionate scuole preparatorie costosissime, che con la loro formazione rigorosa allenano direttamente all’ ingresso nel college). A metà liceo lo studente deve superare un “Test di Valutazione Scolastica”, amministrato da un ente privato ma i cui risultati sono nazionalmente riconosciuti; e alla fine del liceo lui o lei prepara il suo dossier, da inviare ai college di sua scelta (quasi sempre lo studente manda la documentazione a più di un college). Il tipico dossier comprende: la media dei voti, con le indicazioni dei corsi speciali di cui si diceva; il curriculum, che non riassume soltanto la carriera scolastica, ma elenca anche eventuali attività di rilevanza sociale (sportive, artistiche, di volontariato); un saggio di auto-presentazione; lettere di referenza dei professori (per favore evitiamo la traduzione “lettere di raccomandazione”, perché questo termine italiano è ormai irrimediabilmente corrotto); facoltativamente, lo studente può includere riproduzioni di sue opere artistiche, film, video di sue performance e simili.

A questo punto il destino universitario dello studente è nelle mani della commissione che in ogni singolo college è preposta alle ammissioni — commissione il cui giudizio è insindacabile e che non viene motivato in forma esplicita. La commissione valuta tutti gli elementi di cui si è detto, più alcuni fattori non ufficialmente riconosciuti, ma la cui esistenza non è un segreto per nessuno. In sostanza ogni college, soprattutto i college della “Lega dell’Edera”, decide per conto suo quale sia la combinazione di fattori scolastici, sportivi, geografici, etnici che possano meglio contribuire a creare una popolazione studentesca diversificata. La formula burocratica oggi alla moda parla di “un processo di ammissione olistico”, ma questo è essenzialmente un eufemismo per designare una forma di lottizzazione: la cui base comunque, nei migliori college, è sostanzialmente meritocratica. Perché, “sostanzialmente”? Perché ci sono due precisazioni importanti da fare.

In primo luogo, i grandi college accelerano e anticipano il loro processo di selezione mandando, quando si avvicina la scadenza delle scelte, in giro per i licei loro rappresentanti che si offrono di intervistare studenti interessati a quel college — e se la loro impressione dall’intervista risulta favorevole, il college si dichiara pronto ad ammettere anticipatamente, con borse, gli studenti in questione. Queste “ammissioni anticipate” sono rivolte soprattutto agli studenti che mostrano promessa come atleti, dunque potrebbero entrare nelle squadre sportive da cui dipende in buona parte l’immagine dell’università in questione — ed ecco che il concetto di meritocrazia viene inteso in senso elastico, al di là dell’elemento accademico. (Una professoressa di scuola preparatoria mi descriveva il misto di soddisfazione e delusione da lei provato quando ha saputo che la sua migliore studentessa, cui lei aveva trasmesso l’amore della letteratura, era stata ammessa in anticipo a una grande università — ma non sulla base della sua promessa come studiosa, bensì come rematrice da competizione …).

Ma soprattutto: esiste tuttora (anche se si fanno sempre più forti le voci critiche a questo proposito) la categoria di “preferenza ereditaria” (legacy preference), in base alla quale è normalmente ammesso che un dato college riservi una quota delle sue ammissioni ai figli di laureati di quel college (i potenti alumni) che abbiano beneficato a suon di dollari il college in questione — a conferma ancora una volta di come, negli Stati Uniti che spesso guardano con un certo sprezzo democraticistico alle tradizioni della nobiltà europea, esiste ed è potentissima una forma di nobiltà ereditaria: quella dei quattrini. Paradosso: il sistema universitario americano, che sulla carta potrebbe apparire (soprattutto alla mentalità italiana di tipo sindacalistico-statalistico) come un concentrato di arbitrio, anti-democraticità e non-trasparenza, continua invece a stimolare i suoi studenti (anche con la felicità degli sport) e conseguentemente a produrre cittadini di alto livello, nei vari percorsi di vita (siano essi funzionari probi ed efficienti , o eccellenti ricercatori). È una mescolanza di selezione, dedizione e monetarizzazione che è molto, molto difficile da esportare.

 

Paolo Valesio

New York

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