Archivi del mese: luglio 2016

LE CARDINALI


Questo minisaggio è appena apparso con il titolo “ATTENTATO ROUEN / Quel “colpo” alla Chiesa che ci ricorda i martiri e le virtù cardinali” sul “ilsussidiario.net” del 27 luglio 2016. 

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Una chiesa il lunedì mattina

LE CARDINALI

C’era una canzone popolare americana (del genere country music) che diceva: “Il mio cuore è vuoto / come una chiesa il lunedì mattina”. Sembra che, al momento dell’assassinio di Rouen, il sacerdote stesse officiando di fronte a un pugno di parrocchiani e a un paio di suore – e questo popolo sparuto è forse il particolare più commovente. Nelle messe feriali di una delle grandi chiese di Bologna, al massimo arriviamo alla diecina – contando il sacerdote di più di ottant’anni, il sagrestano e tre suore; e gli altri sono anziani un po’ gualciti, come il sottoscritto. (Beh, bisogna dire che spesso appare anche una signora ancora giovane, carina e molto elegante – arriva ogni volta con una toilette nuova – la quale ci rinfresca un poco gli occhi; ma si sa, ogni regola ha le sue eccezioni.)

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Padre Jacques Hamel che celebra la santa messa

Se gli accoltellatori di Rouen pensavano di colpire un importante simbolo dell’Europa, bisogna dire che sono stati abbastanza ingenui. Non siamo mica più ai tempi del solenne Assassinio nella Cattedrale di T. S. Eliot; oggi i cattolici in Europa sono qualcosa di simile a un elemento di folklore. (Mi pare che il papa emerito abbia già espresso, naturalmente con più eleganza, un pensiero analogo.) In paesi meno “civili” di quelli europei, l’assassinio di una sacerdote della religione A avrebbe probabilmente scatenato qualche attacco ai seguaci della religione B; dunque noi dovremmo essere – e siamo – fieri di non essere (ancora) scaduti a questo punto. Però – però: questa civile reazione è dovuta a carità cristiana? Nella maggior parte dei casi, essa nasce da un misto di paura e di rassegnata indifferenza. In fondo, tra la violenza reale raccontata alla TV in modo rozzo e frammentario, e quella immaginaria – molto più persuasivamente costruita – dei telefilm “di azione”, è comprensibile che noi restiamo un poco disorientati.

Ogni tanto, quando nella liturgia del giorno si parlava di martiri, il sacerdote ci ricordava che tutti noi dobbiamo esser pronti a essere martiri nel senso etimologico di “testimoni”; e aggiungeva che plausibilmente non saremo mai chiamati a esserlo nel senso pieno del termine. Fino a ieri eravamo tentati di sorridere internamente, di fronte a questa precisazione. E ogni mattina, entrando in chiesa e passando tra i due carabinieri di guardia al portone, ci davamo il “Buongiorno” sorridendo, come in una bonaria routine. Ma adesso i sorrisi, interni ed esterni, sono scomparsi.

Debbo ammettere che, finora, non ho sentito tanto la paura quanto l’indignazione. Due reazioni, si potrebbe dire, non molto cristiane; e nessuna delle due è caritatevole. D’altra parte, si dovrebbe anche sommessamente osservare che, accanto alle tre virtù teologali dominate (secondo la famosa frase di san Paolo) dalla carità, ci sono anche com’è ben noto le quattro virtù cardinali – e una di esse è la giustizia.

Paolo Valesio

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La piazza di Rouen

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SOLTANTO RETORICA?


Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “ilsussidiario.net” del 25 luglio 2016 col titolo “Le emozioni di ‘The Donald’ battono il programmino della Clinton”. 

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SOLTANTO RETORICA?

Donald Trump, nel discorso conclusivo della convenzione nazionale del partito repubblicano, ha pronunciato battute sessuali o razziali? No, grazie al cielo. Ha enunciato programmi specifici? No, grazie al cielo. I “programmi specifici” sono quelli che i politici da bar sport (che vanno presi sul serio) sinceramente dicono di desiderare – ma in realtà quello che vogliono è qualcosa che li trascini e convinca; e sono quelli che i politici di professione (per esempio, Hillary Clinton) agitano di fronte alla folla sapendo bene che si tratta di carta straccia.

Invece Trump, il professionista del non-professionismo, ha lavorato su quella che è la sua specialità: le emozioni. Per lavorare sulle idee (cioè, per usarle politicamente), è consigliabile non averne – basta orecchiarle. Ma con le emozioni è tutt’altra cosa: non ci si può lavorare se non le si prova veramente – non si possono orecchiare le emozioni. (Vuol dire che le emozioni sono più importanti delle idee? Boh. Comunque, questo è un altro discorso.)

A un certo punto, “The Donald” ha usato (o meglio, il suo scrivi-discorsi ha usato) la venerabile figura retorica dell’anafora, vale a dire la “ripetizione della medesima parola, o gruppo di parole, all’inizio di due o più frasi successive” (come dice il Vocabolario Zingarelli). Provarla per credere: una ripetizione ben ritmata di immagini concrete è più potente di una conferenza (è irrazionale? È pericoloso? Non lo so, e non è colpa mia: so soltanto che è così, per lo meno dai tempi di Demostene a oggi). Dunque, l’anafora: per rendere concreti i pericoli della vita sociale contemporanea (che frase astratta…) Trump ha cominciato a enunziare una serie di nomi di giovani di buona famiglia assassinati per futili motivi da irregolari della società. Il crescendo stava funzionando bene (l’effetto dell’anafora, ovviamente, sta nell’accumulazione) – ma improvvisamente lui si ferma, e “sciupa l’effetto” (apparentemente): “No” – esclama – non ce la faccio più – sono sconvolto dicendo queste cose!” (Non è una citazione parola per parolama questa era in sostanza la frase).

Ora, i casi sono due – e due soltanto: o Trump è un grande attore, e ha costruito questo effetto a tavolino con il suo scrittorello; o è stato uno spontaneo movimento emotivo. La prima ipotesi attribuisce a Trump una consumata, raffinatissima abilità, che a me francamente non sembra egli possegga (e che comunque smentirebbe quelli che per un anno si sono trastullati a trattarlo da mentecatto); oppure è stato un momento di commozione autentica. Che cosa voglio dire? Che l’esito delle elezioni più importanti quest’anno, e per alcuni anni a venire, si giocherà tutto in un paio di dibattiti faccia a faccia tra i due candidati – e non si giocherà sulle enunciazioni programmatiche, ma sui momenti di emozione. “Non ho un cane iscritto a questa gara” (I do not have a dog in this race, per dirla all’inglese), perché non prenderò parte alla rissa elettorale. È dunque spassionatamente che dico: di fronte all’interruzione improvvisa che ho descritto, la Clinton – che certamente stava seguendolo alla televisione – deve aver sentito un momentino di panico.

   Paolo Valesio

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Le emozioni del “The Donald” sono immense

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Dallas e oltre: il dopo-sermone


Riporto qui con il suo titolo originario il saggio apparso su “ilsussidiario.net” del 1o luglio 2016 col titolo “Strage di Dallas e Houston/Quella retorica (anti-bianchi) di cui nessuno parla”

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Cartolina da Dallas, Texas

DALLAS E OLTRE: IL DOPO-SERMONE

Vogliamo sermoneggiare? Lo si sta facendo e lo si farà a iosa nei prossimi giorni; dunque in questo angolino possiamo farne a meno – cioè possiamo risparmiarci la domanda prematura: “Che fare?”, a cui poi subito si risponde, fra un torcer di mani e un lacerarsi di vesti, con qualche ovvietà. Come: bisogna essere buoni, bisogna pregare. Certo, che bisogna essere buoni (comportamento, come tutti sappiamo, enormemente difficile, che funziona una mezz’ora sì e tre ore no); certo, che bisogna pregare – se si è parte di quel mondo, minoritario o no (il sottoscritto vi appartiene), il quale è convinto che ciò serva a qualcosa.

Lasciamo perdere allora, e passiamo a – che cosa? Le analisi? Ma no: qui non si pretende a tanto. Tutt’al più (ricordandosi che, ai tempi di Shakespeare, il fool poteva intervenire anche nelle tragedie), si può esprimere qualche scetticismo sui primi tentativi di tali analisi; come: “E’ stato un cecchino solitario” (quanta fretta a dirlo – ricorda la versione ufficiale di un’altra sparatoria a Dallas…) o: “Il problema non è l’odio razziale – il problema è la proliferazione delle armi da fuoco” (la proliferazione esiste, ma qui non c’entra molto)”, o ”Il problema è che i poliziotti afroamericani sono troppo pochi in percentuale” (vero, ma è un dato da maneggiare con cura, se no si ricade nel razzismo che si pretendeva di condannare), ecc. Allora? Allora è sufficiente chiedersi: ma che cos’altro c’era da aspettarsi? Ma dov’è la sorpresa?

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Il fool shakespeariano

Tornando per un momento alla Leggenda del Cecchino Solitario: anche se fosse provato al di là di ogni ragionevole dubbio (come si dice nei tribunali americani) che a Dallas l’altro giorno un uomo solo ha architettato l’imboscata – anche se così fosse, sarebbe sempre una verità da tribunale, necessariamente distinta dalla più vasta realtà sociale. Sì, perché – giorno dopo giorno, in tutte le città degli Stati Uniti – noi abbiamo visto crescere un’ideologia della violenza che si mascherava da protesta, abbiamo visto crescere una retorica (tutte le retoriche hanno conseguenze pratiche ) che non era solo anti-poliziesca – e sarebbe già pessima cosa – ma genericamente anti-bianca. E abbiamo finto (prima di tutto verso noi stessi, con quella piccola morte dell’anima che è l’autocensura) di non vedere tutto questo.

 

Perché non abbiamo avuto sufficiente forza d’immaginazione (senza di essa, non serve a molto parlare di morale) per tentare di capire i sentimenti (e la politica, nonostante la sua vernice razionalistica, nasce dai sentimenti) di una maggioranza – la popolazione bianca degli States – che neanche tanto lentamente sta diventando minoranza, mentre noi siamo indaffarati a offrire il nostro piccolo contributo di battute di spirito su Donald Trump, e Barack Obama è ormai incantonato in un ruolo alquanto professorale.

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La leggenda del cecchino solitario

Perché abbiamo dato troppo ascolto alle anime belle : le quali non hanno, per esempio, l’esperienza di scendere dal treno alle ore piccole, partendo dai quartieri ghettizzati che fanno corona all‘università di Yale in New Haven per arrivare nel quartiere ghettizzato di Manhattan che sta intorno alla stazione ferroviaria sulla Centoventicinquesima Strada a East Harlem – invece che continuare subito fino al capolinea (dieci minuti, e un altro mondo, più tardi), che è la zona medio-alto- borghese intorno a Grand Central Station.

 

Perché ci siamo lasciati contagiare dal veleno ideologico, guardando solo verso “sinistra” o solo verso “destra”, senza accorgerci che a questi cartelli segnaletici non corrisponde più alcun territorio riconoscibile. Chi “spiega” (con buone ragioni) gli episodi di violenza afroamericana in base al contesto sociale, ma poi non compie lo stesso tentativo di “spiegazione” (sociologica, non moralistica) degli episodi di violenza poliziesca, riferendosi all’effettivo contesto sociale in cui ogni poliziotto è costretto a operare ogni giorno, e risponde al razzismo anti-nero civettando con il razzismo anti-bianco; chi grida “Razzista!” a chiunque tenti di assumere un atteggiamento equanime ed equilibrato sulla violenza fra razze diverse negli Stati Uniti (e in Europa); chi fa la conta dei cadaveri (i numeri di Dallas comparati con quelli di Houston, del Minnesota, della Louisiana), evocando indirettamente una ideologia della rappresaglia; chi equipara il concetto di guerriglia urbana con quello di reazione sproporzionata – ecco, tutti costoro contribuiscono (in modo lieve, involontario, indiretto; ma contribuiscono) ad attizzare l’incendio che è già scoppiato. Ma non è per caso che “tutti costoro” siamo anche un po’ “tutti noi”? Beh, fino a un certo punto : esistono – e sempre esisteranno per la salvezza del mondo, e ognuno di noi ne conosce alcuni, anche se non risaltano nella folla – coloro che applicano la categoria spirituale del discernimento, evitando che l’esame di coscienza decada in un senso qualunquistico di complicità.

– Paolo Valesio

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