Archivi del mese: settembre 2014

“L’effetto serra è una bufala”: un corteo che l’Italia se lo sogna

    “Riporto qui di seguito un articolo apparso sul quotidiano online “Ilsussidiario.net” del 23 settembre 2014 con il titolo (scelto dalla redazione):  “L’effetto serra è una bufala”: Un corteo che l’Italia se lo sogna. (Nota bene: la frase tra virgolette  è una citazione che non riflette il mio pensiero)”

“L’effetto serra è una bufala”: un corteo che l’Italia se lo sogna

Paolo Valesio
martedì 23 settembre 2014

NEW YORK – La novità maggiore della “People’s Climate March” (Marcia popolare sul clima) che ha avuto luogo domenica a New York non sono stati, per un osservatore europeo, i suoi elementi di rilievo immediato. Non che questi dati non siano stati importanti, e tali che si potrebbero addirittura definire storici: più di 300mila dimostranti di tutte le età e delle più varie provenienze, venuti anche da altri stati dell’Unione e da paesi africani, asiatici ed europei (“perfino da Roma”, ha scritto il New York Times di ieri) hanno sfilato per i canaloni di Manhattan dalla tarda mattinata fino alla sera, in una selva di cartelli e di altre presenze pittoresche. New York, questa città cinica e scanzonata che ha visto di tutto, ieri ha forse sorpreso se stessa, con un’atmosfera che si potrebbe definire allegra e pensosa insieme, e che si notava già nella metropolitana e negli autobus, fin dalle prime ore del mattino. Le persone che si stavano recando alla Marcia si riconoscevano facilmente l’una con l’altra, anche senza parlare e in assenza di cartelli o altri distintivi: avevano la stessa aria di tranquilla energia, quasi di entusiasmo – l’aria di chi ha uno scopo che dà un senso alla sua giornata, e sperabilmente a quelle che seguiranno.

People's Climate March 2014

People’s Climate March 2014, Avenue of the Americas, New York City

Ma non era questo, ripeto, l’elemento di sorpresa per l’osservatore europeo, e specificamente per quello italiano. Quello che colpiva era osservare un corteo pacifico (espressione che ultimamente in Italia è divenuta qualcosa di simile a un ossimoro): un corteo dove erano rappresentate le più diverse comunità, laiche ma anche religiose (uno dei “carri” in stile viareggino del corteo rappresentava l’Arca di Noè e alla sua prua erano visibili un sacerdote cattolico gomito a gomito con un rabbino, frati e suore circolavano intorno, e accanto all’arca oscillava un alto minareto costruito come un pallone gonfiabile); dove gruppi di sindacalisti sfilavano accanto a vari personaggi della vecchia e nuova contestazione (tipo “Occupy Wall Street”) e a gruppi indigeni dell’America del Nord e del Sud; dove contingenti di varie scuole e università si alternavano con i rappresentanti delle comunità cittadine e regionali recentemente colpite da calamità naturali come l’uragano Sandy; dove giovani succintamente vestiti danzavano accanto a invalidi in carrozzella chiaramente contenti di essere in quella compagnia, e a intere famiglie con bimbi in carrozzina.

Il corteo è sfilato nel cuore di Manhattan, passando a pochi metri dalle impeccabili facciate eleganti delle istituzioni industriali e bancarie che sono in un modo o nell’altro indirettamente responsabili del disastroecologico planetario; eppure nessuno si è staccato dal corteo per operazioni di semi-guerriglia, e in generale la presenza della polizia era limitata. I rappresentanti delle forze dell’ordine (con larga presenza femminile) eranoamichevoli e soprattutto concentrati (insieme con il servizio d’ordine del corteo) a mantenere il trafficoscorrevole e ordinato: cosa che è pienamente avvenuta, senza tensioni, brontolii proteste tra gli sfilanti da un lato e i passanti e veicoli che andavano per i fatti loro, dall’altro lato.

L’osservatore italiano, soprattutto se giovane e ideologizzato, potrebbe esser tentato di guardare con un sorriso ironico a questo contrasto – dimostranti che passano tranquillamente accanto ai cosiddetti palazzi del potere contro cui protestano – e potrebb’essere tentato di parlare di “tipica ingenuità americana”. Ma se così facesse, sbaglierebbe di grosso: quello cui abbiamo assistito ieri era lo spettacolo di una vera democrazia. Certo, è una democrazia che funziona all’ombra dell’impero, laddove la società italiana non è (non è più) imperiale; d’altra parte la società italiana non è ancora una vera comunità, non è ancora completamente pacifica e rispettosa delle leggi (come i suoi cortei di protesta spesso e volentieri dimostrano) – dunque non è ancora compiutamente democratica. Al momento culminante del corteo, nel cuore della cittadella commercial-mediatica (all’angolo della Avenue of the Americas con la 57sima strada) puntualmente alle ore 13, come richiesto dagli organizzatori, il corteo dei 300mila si è immobilizzato, e la cacofonia che fino ad allora aveva regnato si è trasformata nel silenzio più completo, per un intero minuto; e come sa chiunque ha partecipato ad eventi di questo tipo, un minuto di silenzio di massa è molto lungo.

Minuto di raccoglimento? Minuto di protesta silenziosa? (la maggior parte dei manifestanti hanno trascorso quel silenzio tenendo le braccia levate e lo sguardo rivolto a terra, ma vari di loro hanno tenuto un solo pugno alzato). La differenza importa poco: quella a cui abbiamo assistito era una manifestazione di rispetto della persona e della proprietà privata, di cura della dignità umana e del nesso fra la comune umanità e le differenze individuali. Un dettaglio da non dimenticare: a Columbus Circle, sul marciapiede di fianco al corteo che sfilava, stava ritto in silenzio un uomo alto, pallido e nervoso che reggeva un cartello scritto a mano il quale diceva: “L’effetto serra è una bufala” – e a poca distanza sostava un poliziotto alto quanto lui, ovviamente pronto a proteggere quella “voce fuori dal coro” dall’eventuale ira dei manifestanti. Ma non c’è stato bisogno di alcuna protezione: un uomo solo ha avuto il coraggio di esprimere il suo dissenso (non importa quanto debolmente fondato) contro più di 300mila – e non si diminuisce la sua coraggiosa originalità quando si nota che egli sapeva di poterlo fare perché era consapevole di vivere all’interno di una comunità democratica.

Da ilsussidiaro.net

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Critica e meditazione (Introduzione IPR, VIII, 2013)

Anticipo l’introduzione di IPR VIII 2013,  il nuovo numero di “Italian Poetry Review (IPR)”, la cui pubblicazione è imminente.

Critica e meditazione

«La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo»

(F. T. Marinetti, Manifesto del Futurismo)

Sono grato a tutti gli autori presenti in questo numero di «Italian Poetry Review» (IPR), anche se qui vi è spazio per citarne solo alcuni, per avere offerto l’occasione di sviluppare una piccola meditazione. «La meditazione continua» è un motto che può utilmente servire da guida[1], ma solo ultimamente è divenuto chiaro come questa categoria dell’esperienza non si applichi soltanto al libero flusso del pensiero e della scrittura saggistica, bensì possa riferirsi anche alla critica che si chiama propriamente letteraria. Certo, tale critica è anche intervento, spiegazione, polemica: tutte attività legittimissime, e in effetti, maggioritarie. Qui s’intende soltanto sottolineare (non più di questo, perché già esiste una tradizione in proposito) l’importanza di mantenere aperto uno spazio per la critica letteraria come meditazione, accanto allo spazio d’azione di tutte quelle altre forme di critica letteraria che sono didatticamente e politicamente consacrate.

Italian Poetry Review

Italian Poetry Review

È vero che la frase citata in esergo non è molto «meditativa», anzi suona piuttosto come uno squillo di tromba; dunque è necessario un minimo di chiarimento. Il richiamo a Marinetti non è poi tanto gratuito, in apertura di questo numero che uscirà in vicinanza dell’anniversario (dicembre 1944) della morte dell’autore – ricorrenza che in Italia sarà ricordata, nella misura in cui lo sarà, nel solito modo difensivo e guardingo (e tanto meglio se questa previsione venisse smentita). D’altra parte, il presente numero di IPR non contiene materiali futuristi – il che non significa che tracce futuriste siano completamente assenti dai testi presenti in esso. Per esempio, la tecnica del «doppio sostantivo» messa in evidenza da Romano Manescalchi nel suo vivace saggio sul poeta Nino Boriosi ha, per quello che riguarda la tradizione italiana del moderno, una genealogia obiettivamente futurista[2], qualunque siano (o non siano) le influenze filologicamente riscontrabili.

Ma vi è anche, in questo numero, una traccia marinettiana più evidente – e tanto maggiormente significativa in quanto proviene dall’area letteraria francese, che si è a volte rivelata men che generosa nei confronti di Marinetti e del suo movimento. Mi riferisco alla sezione del romanzo poematico di Claire Leydenbach che qui si pubblica[3]; la sua narrazione a un certo punto incorpora (traducendolo in francese) l’intero testo di uno degli «11 baci a Rosa di Belgrado» (e precisamente «Il bacio sardo») – serie che fa parte delle Novelle con le labbra tinte di Marinetti[4]. Questi «baci» sono prosapoesie di alta qualità, veramente rappresentative di quanto di meglio vi è nella produzione modernistica italiana in questo genere significativamente ibrido, e si lasciano alle spalle buona parte dei vari poemetti in prosa e scritture di prosa d’arte contemporanee e successive a Marinetti – a conferma del fatto che il contributo propriamente letterario di F. T. Marinetti e di altri futuristi all’arte del modernismo italiano dev’essere ancora valutato adeguatamente.

Tutto ciò peraltro non è sufficiente a chiarire la (ir)rilevanza dell’epigrafe per questa meditazione. Quello che si è voluto marcare è uno spartiacque – il limite oltre al quale il messaggio dell’avanguardia storica italiana nella sua forma originaria diventa storico. «Storico» è sempre un termine limitativo, per ciò che riguarda la poesia e le altre arti, perché la loro base è ontologica. Ovvero: quando si riconosce l’origine futurista della gran parte dello sperimentalismo artistico nel Novecento e oltre (riconoscimento sempre più diffuso), si testimonia della perdurante validità – ontologica, appunto – di questo movimento, come accade per ogni altro autentico movimento artistico.

Ma constatando questa «attualità» si viene a riconoscere che il messaggio originale è divenuto per ciò stesso difficilmente recuperabile nella sua urgenza iniziale, e che rischia di essere imbalsamato come, appunto, storico. L’aspetto più positivo dello storicismo è quello per cui esso tenta di ricostruire il più esattamente possibile l’originale valore e significato di un dato movimento o fenomeno; ma appunto, il rischio è la perdita del suo originario senso d’urgenza. (Quando in inglese si dice di qualcosa che «it’s history», questa espressione colloquiale non vale come riconoscimento reverente che questo qualcosa ‘appartiene alla storia’, bensì come irriverente affermazione che esso di per sé ‘non è più di attualità’.) Paradossalmente dunque (e sono i paradossi dell’arte-vita, per usare un termine marinettiano), gli aspetti per cui un movimento o fenomeno artistico resta più drammaticamente vivo sono spesso gli aspetti (nietzscheanamente) «inattuali» di tale movimento o fenomeno; sono essi che preservano il fenomeno originario in quanto originale. Tale è dunque il senso dell’esergo marinettiano.

Quella frase (cui naturalmente molte altre se ne potrebbero aggiungere) è un simbolo come suol dirsi eloquente della distanza tra noi da un lato, e Marinetti e la sua avanguardia dall’altro. Distanza però che non dev’essere vista esclusivamente nei termini di un supposto progresso lineare per cui la nostra epoca rappresenterebbe un livello più alto di consapevolezza poetica o poetologica rispetto alla fase che sarebbe primitiva dell’avanguardia storica (l’ambiguità dell’attributo «storica» non necessita di ulteriori commenti). Le poesie presenti in questo numero di IPR– con le loro originali pronunzie e le loro idiosincratiche diversità (e sarebbe preoccupante se fosse altrimenti)[5] – sono peraltro accomunate dal loro implicito rifiuto di un’ambizione normativa («La poesia deve [corsivo mio] essere concepita»), così come dal rifiuto delle vaste ambizioni conoscitive, nelle quali per esempio il progetto gnoseologico trapassi direttamente in un desiderio di dominio dell’oggetto di conoscenza («violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo»).

Se del primo aspetto non si sente particolarmente la mancanza (soprattutto in una rivista come IPR, della quale si è già più volte sottolineata la dimensione fenomenologica, ovvero descrittiva e non prescrittiva), il discorso dev’essere molto più sfumato per quello che riguarda il secondo aspetto. Le grandi ambizioni di conoscenza sono rischiose (quale ambizione non lo è?), ma la loro mancanza provoca una sensazione di angustia – che porta a guardare con un certo rimpianto all’impeto marinettiano. Resta valido il compito fenomenologico della rivista, ma sarà pur concesso dare espressione a questo senso di mancanza; che, fra l’altro, ci mantiene desti alla possibilità della sorpresa – un po’ come Jünger la descriveva, già negli anni Cinquanta:

«È un antico errore, credere che noi possiamo sapere esattamente quando l’arrivo di un poeta possa essere prefigurato dallo stato della lingua. Può essere che la lingua attraversi uno stato di completa decadenza, eppure un poeta può emergere, come un leone che balzi fuori dal deserto. Per converso, un’eccezionale fioritura non è necessariamente accompagnata da frutti che siano alla sua altezza»[6].

Restando comunque sul terreno della descrizione, è necessario notare che nella poesia italiana contemporanea esistono ancora autori e autrici che coltivano la rischiosa ambizione (rischiosa, prima di tutto, per la qualità del testo poetico) di oltrepassare la datità del cosiddetto reale e di coltivare il linguaggio della trascendenza. Anche se si tratta di un linguaggio tutt’altro che leonino; anche se bisogna andare a cercarlo tra le minoranze (vedi Alessandro Ramberti in questo numero) piuttosto che nel cosiddetto mainstream[7]; anche se occorre essere pronti a vedere gli eventuali aspetti poe-teologici (come altri li hanno definiti) nella poetologia; e anche se in questo campo il termine teologia definisce un pensiero ricco delle sfumature più diverse, e non-puristico (lo stesso vale per la filosofia)[8].

Guardando ora più da vicino a IPR 2013: il tratto che sembra più distintivo in questo numero della rivista è la sperimentazione. Per esempio, si potrebbe dire che la poesia dialettale contenga intrinsecamente un elemento sperimentale – almeno quando accetta consapevolmente il contesto della modernità, come accade nei raffinati idilli di Maurizio Godorecci – in quanto essa gioca le sue carte sulla propria lateralità (termine preferibile a «marginalità», perché quest’ultima parola potrebbe essere fraintesa come in un certo senso discriminatoria). Per quanto, infatti, il testo dialettale si ponga come orgogliosamente (e giustificatamente) originale, esso si riferisce sempre a un’«altra» lingua (anche se questa lingua altra è semplicemente la varietà dialettale più corrente e diffusa, della quale quasi sempre il dialetto che si trova in un dato corpus di poesie rappresenta una forma localmente limitata e spesso riflettente uno stadio cronologico lievemente anteriore; e anche se questa lingua poetica è idiosincratica per via di vari prestiti linguistici).

E’ una situazione che riporta alla mente le speculazioni dell’inflazionato saggio di Walter Benjamin sul compito del traduttore – e che si ritrova nel citato romanzo-poema della Leydenbach. La quale, ponendosi come «traduttrice» di quello che in effetti è il suo nom de plume (Anita Gretsch), evoca dietro il francese un linguaggio originale che in realtà non esiste (se non forse come allusione simbolica a quella lingua europea «minore», il lussemburghese, che appartiene alla formazione dell’autrice); e questa situazione di ‘doppio’ teorico e linguistico si triplica con la traduzione dal francese in italiano di Maddalena Vaglio Tanet.

Diversi ma analoghi sono i casi del poeta che presenta testi originariamente scritti o in inglese o in italiano (Todd Portnowitz), o della poeta che traduce se stessa dall’inglese all’italiano (Barbara Carle – con quell’ulteriore complicazione che è l’intarsio nel suo testo di versi di autori famosi). Tutto ciò evoca fra l’altro, anche se l’analogia è ancora più distante, una poetica dello scavo e del recupero: le opere «minori» di Machiavelli studiate in un volume collettivo coordinato da Francesco Bausi, una prova giovanile come la tesi di laurea di Antonia Pozzi (sviscerata da Matteo M. Vecchio), le poesie del prosatore Goffredo Parise (studiate da Dalila Colucci).

Questo sperimentalismo è confermato anche dalla sezione dei testi teatrali (e la dizione teatrale è intimamente apparentata a quella poetica). Il tratto sperimentale del monologo scritto da Gregorio Scalise è il modo deciso in cui esso scavalca la barriera ideologica della scrittura ‘di genere’: qui uno scrittore dà voce a un’icona femminile – ed è una voce forte, sostanzialmente persuasiva. Quanto al testo di Plinio Acquabona – autore signficativo fra quelli cui si accennava nella nota 7 – si può ben dire che il suo terminus technicus «onirodramma» rifletta fedelmente la natura del testo, che è aspro e sognante al tempo stesso[9].

Quelli che precedono sono solo un paio di fili conduttori di lettura, per questo IPR 2013. I testi qui presenti sono abbastanza ricchi perché i lettori possano aggiungere altri percorsi.

Paolo Valesio

Bologna / New York

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[1] La suggestiva anfibologia italiana – fra «continua» come aggettivo e come verbo – deve essere più prosaicamente ‘disambiguata’ in inglese; anche se ciò non distrugge la poeticità di, per esempio, la breve meditazione di Mario Moroni, The Continuous Meditation / The Meditation Continues, nel libro collettivo Discourse Boundary Creation, a c. di Peter Carravetta, New York, Bordighera Press, 2013, pp. 116-118.

[2] «Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto» (punto 5. del Manifesto tecnico della letteratura futurista [1912], per cui vedi F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a c. di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 1968, p. 47 – con il grassetto nel testo originale). Dovrebbe essere ormai abbondantemente chiaro che simili dichiarazioni hanno un valore essenzialmente metaforico e iperbolico: Marinetti è sempre stato troppo geniale come scrittore per seguire alla lettera le sue stesse ‘ricette’. Quello cui ci troviamo di fronte, in Marinetti e, toutes proportions gardées, in poeti come Boriosi è una poetica (sfumata e moderata) di accoppiamenti paratattici. (L’espressione chiave nel testo marinettiano è: «senza congiunzione».)

[3] Come esistono (se esistono) le sincronicità, così si potrebbe dire che ci sono – per coniare un termine – anche i sincrostilemi: così capita che la parola «teratologia» del titolo di quel romanzo, Tératologie amoureuse (con il suo riferimento allo studio di varie formazioni corporee insolite: mostri, mutanti ecc.) si ritrovi, in questo stesso numero, in una delle poesie di Dario Villa analizzate nell’erudito saggio di Alessandro Giammei. È una parola che sembra essere nell’aria: lo studio dei «mostri» comincia a essere uno dei temi più frequentati nella critica letteraria contemporanea.

[4] Tutta questa raccolta, di eccezionale interesse, meriterebbe di essere tradotta al più presto in inglese. Per il momento (a testimonianza anche dei vari altri contributi marinettiani della nostra rivista, pubblicati in tempi ‘non sospetti’) si vedano le traduzioni annotate di Graziella Olga Sidoli: The Devouring Page: Marinetti’s «11 baci a Rosa di Belgrado», seguite da testi teorici marinettiani pertinenti (a cura della stessa traduttrice), in «Yale Italian Poetry» (YIP), vols. V-VI (2001-2002), pp. 125-183.

[5] Tutt’al più si potrebbe – con ogni opportuna cautela, e senza alcuna graduatoria di valore – suggerire per le poesie qui presenti una distinzione generale tra quelle che si proiettano verso il mondo soprattutto nella sua strutturazione come realtà sociale (Stefano Guglielmin, Carlo Villa) e le altre, che si rivolgono al mondo con un approccio più in-mediatamente percettivo.

[6] Vedi Ernst Jünger, The Forest Passage, trad. inglese di Thomas Friese [il testo tedesco originale è del 1951], a c. di Russell A. Berman, Candor, New York, Telos Press Publishing, 2013, p. 96.

[7] Se è permessa un’auto-citazione: quando, parlando della poesia che come tale «trascende sempre se stessa», aggiungevo che in alcune esperienze di poesia contemporanea «tale trascendimento diviene propriamente ricerca della trascendenza» (vedi Il forum dell’umanità, in IPR VII, 2012, p. 18) intendevo indicare tutto un campo di esplorazione poetologica, al di là delle distinzioni un po’ pedanti tra i «maggiori» e i «minori».

[8] Ancora Jünger, nell’opera citata: «Per ‘teologo’ intendiamo qualcuno che sa – e una conoscitrice in questo senso è la piccola prostituta Sonia, che scopre in Raskolnikov il tesoro dell’essere e che sa come elevarlo alla luce per lui».

[9] Acquabona ha lasciato una vasta mole di testi teatrali inediti, il cui studio è appena cominciato. L’impressione a questo punto (e naturalmente essa potrà essere rivista e ridimensionata) è che, anche se la poesia (di cui Acquabona ha lasciato una nutrita serie di volumi) è la cima alta e nuda della sua produzione, la scrittura teatrale potrebbe risultare la sua acquisizione artistica più solida. È un caso analogo a quello di un altro scrittore spiritualmente complesso, Antonio Barolini (dedicatario di IPR 2010) – con la differenza che in quest’ultimo caso il delicato rapporto di economia poetica (anch’esso in via di esplorazione) non avviene tra poesia e drammaturgia, bensì tra poesia e prosa narrativa, soprattutto narrativa breve.

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