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Il bacio di Tosca

Il bacio di Tosca

“Il bacio di Tosca”, published as “Dopo aver diviso gli Italiani, a chi tocca riconciliarli?”, in IlSussidiario.net4 March 2022

 La scena che colpisce più direttamente (allo stomaco e al cuore) nell’opera Tosca di Giacomo Puccini, inaugurata a Roma nel gennaio del 1900 e la cui azione è collocata circa un secolo prima in quel giugno del 1814 in cui piomba sulla Roma papalina la notizia della vittoria di Napoleone a Marengo, non è quella finale (Atto terzo): con la fucilazione supposta finta ma che poi si scopre autentica del rivoluzionario Mario Cavaradossi, e il balzo suicida di Tosca dagli spalti di Castel Sant’Angelo.

Torna vincitor! Napoleone a Marengo

Parliamo invece di men che una scena: un paio di battute soltanto, nell’Atto secondo. Quando Tosca si rende conto che la vera tortura che Scarpia, capo della polizia, sta infliggendo non è quella fisica, più o meno sceneggiata, sul corpo di Mario, amante di lei, nella stanza accanto; ma è quella che lei, Tosca, subisce senza nemmeno essere toccata: si tratta di quella forma di tortura spirituale che è il ricatto (Mario verrebbe liberato se lei concedesse il suo corpo a Scarpia). È allora che Tosca dice cantando, rivolta al poliziotto dello Stato: “Io – son io / che così torturate!  – Torturate / l’anima –”, e il canto è seguito (nel brillante libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica) da una didascalia: scoppia in singhiozzi strazianti, mormorando; e poi da una battuta recitata più che cantata: “Sì, mi torturate l’anima!”.

L’abbraccio fatale. Scarpia alle prese della Tosca

È un luogo comune (falso, come la maggior parte dei luoghi comuni) che l’opera sia una rappresentazione artificiosa ed enfatica della realtà; e “melodramma” è un termine ingiustamente calunniato. È vero il contrario: il canto operistico, che stabilisce un legame diretto fra i sentimenti e la parola concedendo un minimo spazio ai filtri intellettuali, è particolarmente adatto a mettere in risalto quelle emozioni sottili che rischiano di essere seppellite per sempre nel non-detto e che invece sono decisive, psicologicamente e socialmente.

Svanì per sempre il sogno suo d’amore

Adesso che sembra (ma tutto sarà da verificare) di essere vicini al rilassamento di certe coercizioni – adesso è il momento di gettare uno sguardo lungo sul prossimo futuro: un futuro di cosiddetta “normalità” che invece richiederà due o tre anni, per curare le ferite inflitte al corpo costituzionale del paese e al corpo fisico dei suoi abitanti. Lasciando da parte la politica – ma anche la medicina, anche l’economia, e perfino la psichiatria con il suo linguaggio necessario ma razionalistico – qui la parola operativa è quella di Tosca: l’anima. E vale la pena di sottrarre per un momento questo termine alla retorica mielosa che emana da molti, diciamo così, professionisti dell’anima. Le ferite dell’anima oggi sono piccole: punture di spillo, graffi, gocce che scavano la pietra. Ma queste punture sono quotidiane e umilianti: come quella che molti cittadini sentono ogni volta che debbono “esibire” il passaporto detto sanitario.

Nell’ora del dolor, Signor, ah, perchè me ne rimuneri così?

Ferite che nutrono l’esasperazione e che – scavalcando i confini ideologici artificiosamente coltivati da chi costruisce le divisioni – vengono poi a incontrarsi con le piccole, continue ferite di chi sta sul lato contrario, quello di chi si allinea alle proibizioni e curva la testa nell’obbedienza dettata dalla paura. Quanta fatica ci vorrà, in una popolazione che viene tormentata da due versanti opposti, per riscoprire – non si dice la solidarietà tanto strombazzata – ma la dignità, e la pace con gli altri?

Queste piccole sofferenze potrebbero sembrare poca cosa di fronte alle tragiche guerre europee, ma non è così: si tratta di due problemi strettamente connessi. Come ignorare, infatti, l’ipocrisia di chi pontifica sulle democrazie occidentali mentre mina dall’interno gli atti costitutivi di queste stesse democrazie?

Anime torturate

Un commento in una “chat” che accompagnava una video-intervista tedesca sui divieti e le costrizioni diceva: “Le parole dei miei avversari, le dimenticherò; ma non dimenticherò il silenzio dei miei amici”. Del resto, basta ascoltare il cosiddetto uomo (e donna) della strada in Italia per ascoltare parole forti che designano uno stato interiore autentico – parole come “stritolato”, “schiacciato”, “triturato”.

Attenzione, allora: queste anime sottilmente torturate si preparano a chieder conto – ma non a “fare i conti”. Non si parla di vendicatività (le anime non si fanno guerra tra loro); si tratta di preparare un credibile terreno per quella che dovrà essere una riconciliazione.

La donna che visse d’arteoltre ogni speranza di riconciliazione

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LA TRAGEDIA GIOCOSA

Riporto qui, con il suo titolo originario, il saggio apparso su “ilsussidiario.net” l’8 gennaio 2019 col titolo “Don Giovanni, quell’intreccio tragico e giocoso di bene e male”.

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La gratitudine come sfida

LA TRAGEDIA GIOCOSA

Di fronte a ogni spettacolo di bellezza (opera musicale, pittorica, letteraria o altro) emerge in ognuno di noi quella che si potrebbe definire la sfida della gratitudine, per cui si sente il bisogno di mostrarsi grati, al di là degli applausi o altre forme di apprezzamento, a tutta una serie di “persone” che però sono in ultima analisi degli intermediari: l’opera stessa, prima di tutto; e poi i suoi interpreti (attori, scrittori di saggi critici, ecc.); e poi l’autore/autrice; e infine o in principio (ma è la “persona” più frequentemente dimenticata) il Creatore di tutto ciò.

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Applauso e altre forme di apprezzamento

Ecco perché uno spettatore musicofilo ma non musicologo sente la necessità di esprimere brevemente la sua gratitudine verso uno capolavoro immortale la cui recente interpretazione è stata vista al Teatro Comunale di Bologna: il “dramma giocoso” in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte, Don Giovanni. “Capolavoro immortale” è un’espressione abbastanza generica e impersonale, mentre la gratitudine evoca un rapporto per sua natura personale. E’ necessario dunque che chi vuole esprimere questa relazione o sentimento riscopra per conto suo a ogni incontro l’opera in questione, tentando di ritrovare l’ingenua freschezza della “prima volta”.

Ma, come recuperarla? Semplicemente, si potrebbe cominciare dall’inizio dell’opera; ma non è poi tanto semplice, perché quello è un inizio-prima-e-dopo-l’inizio. Infatti le primissime battute dell’ouverture (le quali sono all’altezza di quelle famose della Quinta Sinfonia di Beethoven), sono quasi ineseguibili; tanto che il pur eccellente direttore al Teatro Comunale (Michele Mariotti) sembrò aver avuto un attimo di esitazione, prima di tuffarsi nell’abisso musicale che si spalancava. “Ineseguibili”, però, per ragioni filosofiche piuttosto che musicali. Pochissime battute, ma cupe e martellanti, senza che lo spettatore sia stato psicologicamente preparato, cadono come blocchi di piombo creando un’atmosfera che stringe il cuore. Non si è ancora cominciato, e già tutto si è concluso, con pietà e terrore.

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La produzione di Sivadier è piena di pietà tragica e terrore

Ma poi: ‘Volete il giocoso?’ (sembra che dica il giovane e dionisiaco autore), ‘Eccovelo qui, il giocoso!’. Senonché, la ridda musicale che immediatamente segue non è particolarmente festosa: è la musica di un party di quelli in cui si sente subito che l’aria è un po’ losca, con una certa anticipazione di rissa. Poi l’atmosfera cambia di nuovo, e l’ouverture si conclude con un’accelerazione tutta fisica; tanto che quando si alza il sipario la maggior parte degli spettatori, che ovviamente già conosce la storia (l’opera è lo spettacolo per eccellenza degli habitués), si aspetta di assistere subito al precipitare della violenza: Don Giovanni che fugge dal letto di Donna Anna urlante, affronta il padre di lei e lo uccide in un rapido duello. E invece no: l’opera comincia con una pausa burlescamente meditativa, cioè il monologo di Leporello — che comunque esprime una giocosità amara ed eversiva rispetto al rapporto servo-padrone. E da qui in avanti, tutto corre vertiginosamente verso la fine.

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Il dramma tragico però rimane sempre anche giocoso

Don Giovanni è uno dei culmini del pensiero musicale moderno, e in particolare (com’era da attendersi) tedesco, sull’amore. Dopo la sublime meditazione di Bach sull’Amore divino, il secondo grande picco è appunto questo Don Giovanni di Mozart (meglio: di Mozart-Da Ponte) sull’amore ferocemente mondano. Amore che mescola in modo conturbante il bene (la letizia, l’allegria, il godimento) con il male, cioè con il risvolto torbido e sordido di tutto ciò. Dopo quella straordinaria rivelazione del 1787 occorrerà aspettare, per confrontarsi con una rivelazione altrettanto sconvolgente, l’anno 1865 quando apparve il Tristan und Isolde di Richard Wagner; dove l’amore non si dibatteva più tra il bene e il male tradizionali nel senso suddetto, ma tra il bene come una forma di sanità e il male come una forma di dolce malattia. (Si era arrivati al culmine finale della bufera romantica, e dopo, tutto doveva cambiare; come compresero i modernisti, con Filippo Tommaso Marinetti in testa.)

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Le cristalline altezze e il loro pubblico

Ma in che modo scendere da queste cristalline altezze (quelle che Nietzsche amava frequentare) al piano del palcoscenico? La regia creata originariamente da Jean-François Sivadier per il Festival di Aix-en-Provence ci è riuscita molto bene; ed è stato istruttivo seguire, insieme con l’evolversi del pensiero musicale di Mozart e del pensiero letterario di Da Ponte, lo sviluppo di un pensiero necessariamente derivativo, ma propriamente teatrale. Perché la regia ha avuto il coraggio di puntare le sue carte migliori sul sottotesto eroticodeldramma. Quello che è in gioco infatti è l’eros che sorge dall’inconscio, non quello dei corpi seminudi.

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Delitto compiuto: il nobile dissoluto fa fuori il commendatore

Nel duello iniziale, fulmineo e affidato al pugnale, il colpo mortale di Don Giovanni non si vede, perché il nobile dissoluto lo vibra abbracciando strettamente il Commendatore. Questa attenzione alla corporeità in azione anticipa le più sottili ambiguità dell’amore, che si rivelano anche nelle mosse dei corpi in scena, assecondanti l’impeto sensuale della musica. Donna Anna è stata veramente non consenziente rispetto a Don Giovanni (come il Conte Ottavio vuole, con nobile delicatezza, credere) in quella notte fatale? Donna Elvira è soltanto martire di un concetto astratto di fedeltà coniugale, o anche donna appassionata a cui mancano le carezze dello sposo infedele, e che forse si è consolata un po’ con Leporello travestito da Don Giovanni, nella notte degli equivoci? Zerlina si è lasciata solamente corteggiare da Don Giovanni o si è spinta più avanti? E più tardi, quando essa permette all’ingelosito neo-marito Masetto di sfogarsi “battendola”, quale tipo di rapporto esattamente è evocato?

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Il libertino affronta in una seminudità cristica la sua purgazione

Tutte queste e altre sottolineature non sono affatto esibizionistiche e gratuite: esse sono chiaramente implicite (l’ossimoro è giustificato) nel brillante libretto di Da Ponte; ed è solo così che si può rendere terribilmente credibile la sofferenza che attende Don Giovanni. Il quale, in questa versione psicologicamente matura, non discende in un infernetto di cartapesta, ma affronta in una seminudità cristica la sua purgazione. E’ vero che, di fronte a questa regia che osava sperimentare, vi sono state alcune prevedibili reazioni di parte di coloro che tendono a concepire le opere liriche come messe laiche, in cui nessun particolare consegnato dalla tradizione possa essere cambiato: l’“oh!” scandalizzato di alcune spettatrici di fronte a Don Giovanni discinto, il negativismo di un paio di recensioni locali … ma questo è sempre da mettere in conto, e intanto la vita del teatro procede.)

Paolo Valesio

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Il rito dell’applauso si compie con mansuetudine allegra

 

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